FILM: L'ANNO IN CUI I MIEI GENITORI ANDARONO IN VACANZA DI CAO HAMBURGER CON MICHEL JOELSAS, BRASILE, 2008
Brasile 1970. Il paese è attanagliato dalla dittatura militare e quella stessa estate, in Messico, si svolgono i campionati del mondo di calcio. Con prepotenti aspettative per quel che riuscirà a combinare la squadra capitanata da Pelé. In questo contesto il dodicenne Mauro viene imbarcato dai genitori nel maggiolino di famiglia. Da Belo Horizonte puntano verso San Paolo, quartiere Bom Retiro. Lì abita il nonno. Dove Mauro dovrà trascorrere qualche tempo in attesa del ritorno dei genitori. Lui non è molto convinto di questa soluzione, ma i suoi sono piuttosto concitati, gli promettono di rientrare per la prima partita dei mondiali e partono per la presunta vacanza. Mauro si ritrova così davanti alla porta della casa del nonno.
Nessuno sa che, nel frattempo, il vecchio è stato vittima di un infarto. Tocca a Shlomo, il vicino, avvicinare il ragazzino. Ma il rapporto non è per niente facile. Tocca smussare gli angoli. E ci vuole anche l'intervento del rabbino che chiama in causa dio per convincere Shlomo a farsi carico di Mauro, «se dio lo ha lasciato davanti alla tua porta deve sapere quel che fa». Un nuovo mondo si schiude, la piccola Hana fa conoscere a Mauro dei coetanei, e insieme, ebrei, italiani, greci sono unificati dal tifo per i verdeoro che marciano verso il trionfo finale, contro l'Italia, sconfitta 4 a 1. I genitori non sono tornati e neppure sono in vacanza, sono oppositori del regime in fuga.
Cao Hamburger per L'anno in cui i miei genitori andarono in vacanza, sceglie il punto di vista infantile, e di segno autobiografico, per un racconto delicato nonostante la prepotenza dei fatti sottesi. Rievocando sin dal titolo quel che aveva fatto Kusturica a suo tempo con Papà è in viaggio d'affari. L'aspetto politico della vicenda non è mai preso di punta, ma è presente in tutto il racconto che apre squarci inediti su una comunità composita, legata alle proprie tradizioni culturali ma profondamente brasiliana quando si tratta di futebol.
Nonostante buona parte dei collaboratori sia stata coinvolta nella realizzazione di Cidade de dios, dove le scene di violenza quotidiana dominavano la scena (così come avviene per Tropa de elite), qui la scelta è andata in tutt'altra direzione. Non è il sangue della repressione o la violenza, latente o evidente, a entrare in campo. Il tono è vicino a quello della commedia. E il peso del film poggia sulle fragili spalle di Michel Joelsas, scovato dal regista dopo un'infinità di ricerche, così come per Daniela Piepszyk che interpreta Hana. E i due ragazzini sono di una freschezza disarmante, riuscendo a iniettare dosi di credibilità a un racconto che avrebbe potuto facilmente scivolare verso una deriva banale o melodrammatica. Invece tutto si tiene i goal di Pelè e la frenetica attività dei militari in cerca di oppositori, i giochi infantili e i rituali della comunità ebraica, lo sguardo innocente su un mondo che di innocente ha ormai solo la gioia genuina, spontanea e immediata legata a una vittoria conquistata sui campi di calcio per portare definitivamente a casa la Coppa Rimet, così come voleva il regolamento che l'assegnava in via definitiva a chi l'avesse conquistata per la terza volta. Il tutto condito dalla musica che spazia da brani tradizionali a Caetano Veloso e Roberto Carlos, rifuggendo però dal folklore per ridare invece spessore alle storie di un'umanità semplice, affidandosi al ricordo che tutto trasfigura.
Non c'è la consapevolezza di vivere momenti importanti della propria vita mentre questi accadono, ma alla luce del ricordo e della ricostruzione tutto assume toni e colori diversi, emotivamente più intensi. Si può anche afferrare a posteriori la felicità di un momento gramo e contraddittorio, fatto di fughe, dittature, persecuzioni. Ma per fortuna con quel campionato mondiale vinto che permette di ritrovare sorriso e gioia di vivere. Nonostante tutto. Anzi senza dimenticare tutto il resto, perché non c'è rimozione dell'orrore rappresentato dalla dittatura militare, solo che questo aspetto non è insistito, per Hamburger conta più la memoria del vissuto e la sua rappresentazione, la piccola vicenda che va a raccontare, lasciando che altri si occupino della Storia.