CULTURA

Migranti italiani nel dopoguerra

FRANZINA EMILIO

Passata a lungo sotto silenzio anche da parte degli studi specialistici su migrazioni e migranti, la ripresa a tratti tumultuosa, dopo la fine del secondo conflitto mondiale, degli espatri dall'Italia per motivi economici e di lavoro costituisce un capitolo affascinante e sin qui poco conosciuto della nostra storia politica e sociale. Mentre imperversano i dibattiti innescati dall'ansia securitaria che sembra pervadere l'opinione pubblica di fronte all'arrivo di stranieri e d'immigranti percepiti tutti, in maniera sommaria e sbagliata, come soggetti a rischio o, nella migliore delle ipotesi, come pericolosi clandestini, è andato pressoché perduto il ricordo dei caratteri assunti, subito dopo l'ultima guerra, dalle massicce partenze, spontanee o pilotate, degli italiani per l'estero. In particolare, si direbbe, per quelle parti del vecchio continente in cui l'opera di ricostruzione postbellica scelse di avvalersi di lavoratori provenienti da quasi ogni regione della penisola spesso varcando in modo palesemente «illegale» i confini nazionali.
Se infatti le peripezie dei «nostri» emigranti della seconda metà del '900 si associano nella memoria collettiva alla disoccupazione dilagante sino alle soglie del boom e - complici sciagure sul genere di Marcinelle o i «grandi numeri» di alcuni esodi di massa - a destinazioni particolari come il Belgio carbonifero e presto maggioritarie come, dalla fine degli anni '50, la Germania federale (e industriale) di Bonn, una sorta di rimozione avvolge le vicende di quella manodopera a basso costo che ebbe inizialmente per meta la Francia e la Svizzera, ma persino la Cecoslovacchia e la stessa Gran Bretagna.
Già buon conoscitore delle esperienze fatte proprio nel Regno Unito dalle avanguardie di questi flussi che avrebbero finito, soprattutto altrove, per assumere proporzioni gigantesche, ne dà conto oggi Michele Colucci con un'indagine esaustiva ed esemplare che prende in esame l'emigrazione italiana in Europa dal 1945 al 1957, Lavoro in movimento (Donzelli, pp. 257, euro 23,50). L'autore appartiene alla schiera di giovani e bravi ricercatori cui il nostro sistema universitario, sempre più impoverito, stenta a fare spazio, incoraggiando per necessità i loro progetti all'espatrio verso lidi scientifici lontani. C'è, insomma, dell'ironia in questa vicenda che nondimeno ruota attorno a un argomento di grande rilevanza.
Benché l'oggetto principale del libro rimangano le politiche migratorie dell'Italia repubblicana e quelle di richiamo e di «accoglienza» degli Stati coinvolti nell'immane tourbillon (nel senso stretto di «gabbia rotante») di partenze e di arrivi, Colucci fornisce - sulla scia delle analisi di Romero, di Pugliese e più recentemente di Rinauro, ma molto approfondendo - una ricostruzione convincente e avvincente degli avvenimenti. Essa è insieme un affresco delle storie di migliaia di uomini e di donne espatriati in cerca di miglior fortuna, e una acuta riflessione sulle dinamiche delle migrazioni internazionali in età contemporanea. Le scelte compiute dai primi e quelle fatte dalle forze politiche e di governo aiutano a comprendere meglio gli sviluppi successivi e persino alcune configurazioni attuali di un fenomeno troppo tardi riconosciuto come fondante dei destini (non solo economici) del mondo occidentale.
Il volgere all'apparenza breve dei dodici anni in cui si racchiude la materia del racconto non deve trarre in inganno perché dopo la stasi determinata non tanto dalla guerra quanto dalla prolungata chiusura degli sbocchi emigratori dopo la crisi del '29, essi rappresentano statu nascenti la cornice esatta di una molto relativa «restaurazione liberista» postbellica dei mercati: qui, ovviamente, di un mercato del lavoro in cui tuttavia la persistenza delle pratiche stataliste già proprie del tardo fascismo interagirono costantemente, a conti fatti, con le spinte provenienti «dal basso» ossia dalle autonome decisioni prese dai migranti in ambito familiare e locale.
Che la «restaurazione liberista» avvenisse, come suggeriva molti anni fa Ester Fano Damascelli, dentro un quadro ideologico condizionato dall'antifascismo e dalle avvisaglie della guerra fredda dipendeva anche dal fatto che tutte le aperture liberoscambiste della nostra politica governativa, al pari di quelle degli altri paesi del vecchio continente, puntavano sì all'inserzione dell'Italia in spazi mercantili più ampi e alla sua partecipazione al processo appena avviato dell'integrazione europea, ma anche al mantenimento (o alla sagace manutenzione), come ha ben spiegato Rolf Petri, di un notevole controllo statale sull'economia e di conseguenza sull'andamento dei flussi rimasti a lungo, per il nostro paese, la moneta di scambio privilegiata onde agevolarne l'ingresso nella nuova area geopolitica occidentale in fieri dopo la guerra ed auspicata, all'epoca, dagli stessi Stati Uniti.
Facendo ricorso a un imponente lavoro di scavo archivistico e a una invidiabile padronanza sia della produzione pubblicistica e giornalistica del tempo sia della letteratura storiografica esistente, Colucci propone già in apertura del suo lavoro l'interessante profilo «interpretativo» entro cui calare ogni riflessione riguardante un tale insieme di circostanze. Alla descrizione del ruolo ricoperto fra ricostruzione e miracolo economico dall'emigrazione europea degli italiani definita (e obiettivamente risultata) di tipo «temporaneo», l'autore fa seguire una attenta rassegna dei dibattiti che dal periodo finale del conflitto e dai lavori della Costituente cercarono di prendere le misure d'una realtà sul serio «in movimento».
Con una facile battuta ispirata al titolo del libro si potrebbe anzi dire che Colucci ci parla così di un lavoro che, dopo la Liberazione, rapidamente mobilita l'uomo, ma sempre in mezzo a grovigli di esperienze pagate a caro prezzo e a coacervi stratificati di provvedimenti normativi di cui diventano emblema, in Italia, gli apparati pubblici di direzione e di controllo (Uffici del Lavoro e della «massima occupazione», centri d'emigrazione e di smistamento o d'inoltro, burocrazia diplomatica e dei passaporti). Ad essi fanno riscontro, in relativa discontinuità rispetto al passato (si pensi solo all'emigrazione nella Francia dell'entre-deux-guerres), le stagioni degli «accordi» bilaterali dove peraltro all'Italia toccò sempre il posto del convitato più debole: a riprova del fatto che la stessa condizione di «ospiti» più e meno provvisori, socialmente penalizzati, quando non discriminati e maltrattati, consegue senz'altro da paure incontrollate dei «nativi» già ben note alla storia degli italiani all'estero, ma in grande misura dipende anche dal modo in cui se ne pilotò la «scomoda» inserzione nei contesti lavorativi e sociali di arrivo.
Qui la xenofobia e l'intolleranza, all'insegna di una non infrequente razzializzazione e di un'altrettanto diffusa criminalizzazione, aumentarono a dismisura il prezzo di un sacrificio di cui alla fine in Italia, si avvantaggiarono soprattutto i «rimasti» e, nel suo insieme, l'organismo economico nazionale. Rivista col senno di poi e con lo sguardo che in un libro di duecentocinquanta pagine può essere dedicato solo ad alcune delle infinite vicissitudini «private» delle persone in carne ed ossa, la situazione affrontata da Colucci dovrebbe quindi venir buona per capir meglio il presente in cui, a parti rovesciate, ci troviamo a vivere (anche se di questi tempi fra Bossi&Fini e Maroni c'è molto da dubitarne); in ogni caso conferma l'idea che quella decina d'anni dei quali egli ci regala, per l'emigrazione in Europa, una lettura partecipe e documentata costituiscono, come ennesimo «laboratorio del dopoguerra», un punto d'osservazione meritevole d'essere da tutti ripensato.

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