POLITICA & SOCIETÀ

Bush a Roma, c'è chi dice no

SETTE GIACOMO

Preoccupazione e sdegno. Con il «ritiro» invocato come «unica soluzione». Le uscite dei ministri Frattini e La Russa su una modifica dei caveat delle truppe italiane in Afghanistan trovano il muro della sinistra. Pronta a usare il suo unico strumento rimasto, «l'opposizione sociale», per respingere le politiche «guerrafondaie» del governo Berlusconi. In questo clima, l'11 giugno Bush verrà in visita a Roma, per discutere la politica estera col Cavaliere: Iran, la base Dal Molin e le regole d'ingaggio dei militari saranno forse i piatti del giorno. E i movimenti del Patto permanente contro la guerra per l'occasione sono pronti a dare il loro «benvenuto a George». Obiettivo: ripetere il successo del 2007.
Finiti i vincoli di governo che li inchiodavano alla politica del compromesso, gli esponenti dell'ex Arcobaleno sono ora liberi di attaccare la presenza italiana in Afghanistan. «Da quel martoriato Paese sarebbe bene che il governo italiano ritirasse le nostre truppe il prima possibile», dice Pino Sgobio della segreteria del Pdci, che poi schernisce la «flessibilità geografica» palesata da Frattini: «L'unica flessibilità è il ritorno a casa». La sua non è una voce fuori dal coro.
Anche il Prc è compatto sul ritiro. «No alla modifica delle regole d'ingaggio, via i militari dall'Afghanistan - dice Claudio Grassi, del comitato di gestione del partito - Le prime intenzioni del nuovo governo delle destre, che approfitta della timidezza imbarazzante del Pd, si annunciano gravi». Elettra Deiana sempre di Rifondazione si pone sulla stessa scia, parlando di Italia «suddita» alle direttive della Nato e di «scomparsa della sinistra in Parlamento che spiana la strada alla guerra preventiva di Bush». Le forze «comuniste» parlano così di opposizione sociale alla guerra, anche se la loro presenza in piazza l'11 giugno, giorno della visita di Bush a Roma, è ancora tutta da verificare. «Dipende dalla piattaforma - fanno sapere - Comunque abbiamo voglia di manifestare il nostro dissenso anche con soggetti differenti da noi. Diciamo no a percorsi escludenti».
Lo spettro dello scorso 9 giugno, ultima visita di Bush, forse circola ancora nelle memorie di qualcuno: quel giorno mentre il movimento no-war sfilava in decine di migliaia per le vie del centro della capitale, il Prc si distingueva, isolandosi in un comizio a Piazza del Popolo. Neanche mille persone il risultato ottenuto, con gli stessi iscritti al partito che scesero la manifestazione di movimento.
Ora un nuovo No Bush, anche se la situazione è diversa: «E' un'altra stagione politica», affermano un po' tutti. Difficilmente si vedrà la partecipazione dello scorso anno: il giorno, mercoledì, porterà ad una mobilitazione più romana che nazionale. Ciò nonnostante l'indignazione contro «il più autorevole guerrafondaio» può montare.
I soggetti del Patto contro la guerra che promuovono l'iniziativa sono, più o meno, quelli dell'anno scorso: Cobas, Rdb, Rete 28 Aprile tra i sindacati, poi Sinistra Critica, Partito dei Lavoratori, Rete dei Comunisti, associazione Disarmiamoci, centri sociali e comitati territoriali. Danno appuntamento alle 17 a Piazza Esedra con percorso ancora da decidere: «Dipende - spiegano - da dove andrà George. Gli obiettivi da assediare sono per noi Palazzo Chigi e l'ambasciata Usa». Senza tralasciare il Parlamento, in cui «il 100% dei suoi componenti è filo statunitense».
«Vogliamo il ritiro delle truppe da tutti i scenari di guerra - dichiara il leader dei Cobas Piero Bernocchi - E in piazza andremo per contrastare l'imperialismo americano». Poi si sbilancia definendo anche la politica estera italiana «imperialista»: «Siamo i quarti - spiega - in impegno delle missioni all'estero. Lo dice D'Alema». Ritiro dei militari, no alle basi Nato e ai finanziamenti di guerra e stop alla costruzione del Dal Molin, questa più o meno la piattaforma del corteo.
Sulla possibile presenza di esponenti di Prc e Pdci gli organizzatori rispondono con freddezza: «Non cacceremo nessuno, però ci dovranno dare delle spiegazioni sulla loro esperienza di governo». Sotto accusa viene messo l'esecutivo Prodi, reo di aver sostenuto la logica della «guerra come strumento di controllo e di arricchimento economico».

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