VISIONI

D'Andrea Five, fresca «tradizione»

Vicenza Jazz
LORRAI MARCELLO,Vicenza

Clarinetto, tromba e trombone: una combinazione strumentale che riporta immediatamente alle origini del jazz, agli Hot Five e Hot Seven di Louis Armstrong, pietre miliari tra le formazioni che hanno fatto la storia del jazz. Che siano clarinetto, tromba e trombone i tre fiati di un quintetto su cui sta ultimamente lavorando Franco D'Andrea non è del tutto casuale, come non è del tutto casuale che il quintetto si chiami D'Andrea Five: è proprio da Armstrong che il pianista è partito, muovendo dal jazz tradizionale i primi passi di un interesse che lo avrebbe portato lontano. Jazz tradizionale che è poi a ben vedere estremamente moderno, come moderna del resto è la valorizzazione che ne dà D'Andrea, musicista profondamente consapevole delle risorse del jazz del passato anche più remoto, ma jazzista assolutamente non sospettabile di passatismo, e certamente convinto che il modo migliore di rendere omaggio alla musica del tempo che fu non è quello di ricalcarla nostalgicamente. Persuaso che il formato degli Hot Five - rispetto al quale D'Andrea si limita a sostituire il banjo, del resto all'epoca stumento essenzialmente ritmico, con la batteria - non abbia esaurito ai tempi di Satchmo le cose che aveva da dire, il pianista ha scelto per i suoi Five musicisti in grado di entrare e uscire disinvoltamente assieme con lui dal jazz «classico» e dal moderno: Daniele D'Agaro al clarinetto, Fabrizio Bosso alla tromba, Gianluca Petrella al trombone, Zeno De Rossi alla batteria. Piena di colori, di vivacità timbrica, l'operazione (discograficamente si veda l'album registrato lo scorso anno alla casa del jazz e messo in edicola con L'Espresso) si traduce in un brillante gioco di rinvii, travasi, scambi tra momenti diversi della vicenda del jazz, sia sul piano del repertorio che stilistico. Il materiale esorbita da quello del jazz tradizionale, perché già l'ellingtoniano Caravan è tutto un altro mondo rispetto ad Armstrong, e ci si spinge anche molto più in avanti, ma pure l'interpretazione è assai libera: col pianoforte di D'Andrea che come pochi altri è in grado di rendere la «grana» di un jazz antico, ma può anche evocarlo con soluzioni assai contemporanee che sarebbero state fantascienza per Lil Hardin o Earl Hines; coi fiati che nella loro esuberanza punteggiano la musica con momenti di grande illuminazione in cui c'è il vitalismo di New Orleans ma anche l'espressionismo di un Mingus, e un gusto cromatico e una freschezza che sono di oggi. Alla maestria di questa fusione di epoche e di indirizzi, D'Andrea unisce anche nei suoi Five il piccolo miracolo del felice accostamento di figure, D'Agaro, Bosso, Petrella, che sulla scena del nostro jazz rappresentano approcci piuttosto spiccatamente diversi e non si sarebbe detto così amalgamabili.
Nella serata forse clou di Vicenza Jazz 2008, nella fantastica cornice del Teatro Olimpico, il D'Andrea Five è stato preceduto, anche nel successo calorosissimo con cui sono stati accolti entrambi i set, da un trio d'eccezione, in attività ormai da vent'anni: quello di Oliver Lake, sax alto, Reggie Workman, contrabbasso, Andrew Cyrille, batteria, settantenni o quasi, il primo esponente di tutto rilievo del post-free, il secondo strumentista di vaglia che ha nel suo curriculum Coltrane e Monk, il terzo protagonista di tante avventure dell'avanguardia free e post. Col suo suono magro, un po' amaro, Lake evita qui di lasciarsi andare ad improvvisazioni a briglia sciolta, e segue invece nel suo solismo asciutto e concettoso una lucida logica compositiva: ha la tendenza a disporre con cura i suoi elementi in una articolazione di momenti tematici, effetti, sospensioni, più che configurando un vero e proprio flusso costruendo una successione di segmenti di diversa lunghezza e natura. Anche l'accompagnamento di contrabbasso e batteria è estremamente ordinato, razionale, quasi una composizione parallela: Workman molto attento ai valori melodici, Cyrille, sottile, calibrato, entrambi tenendo d'occhio la partitura. Di grande compostezza e limpidezza, un trio corroborante, che gratifica gli ascoltatori con il senso di accordo fra i componenti, con l'intelligenza dei rispettivi contributi, con l'appeal di chi è interessante senza bisogno di dover inventare qualcosa per forza, con la misura di chi non ha bisogno di dimostrare niente.

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