VISIONI

Paolo Woods, immagini di un rischioso métissage

REALPOLITIK
DI GENOVA ARIANNA,

Sono circa settecentomila i cinesi che si sono riversati lungo le strade dei villaggi, nel cuore pulsante delle città, dentro le intricate foreste africane. Sono lì per affari, a curare le sorti delle ultime propaggini del capitalismo e a inventare una nuova realtà di colonizzazione, che non condivide nulla con le forme del passato. Imprenditori e operai cinesi si mescolano alla manodopera locale e costruiscono infrastrutture in cambio di preziose materie prime che «barattano» con i governi africani, dittatori compresi, da poter poi utilizzare in patria. La Cina come nuova potenza economica si manifesta anche così, in quarantanove paesi africani. La storia è quella di sempre: narra di sfruttamenti, di relazioni difficili, di regole del mercato non sempre trasparenti. Le conquiste si fanno sul campo, a qualsiasi prezzo. Un fotografo, Paolo Woods (classe 1970, olandese, studi in Italia, ora lavora a Parigi) e un giornalista-inviato di Le Monde, Serge Michel, hanno deciso nel 2007 di passare un lungo periodo di tempo in quel continente per documentare cosa stava accadendo, quali nuove geografie umane e sociali si stavano disegnando. Parte di quello spinoso progetto è ora in mostra al Palazzo delle Esposizioni di Roma, per il festival internazionale FotoGrafia (fino al 25 giugno) e presto sarà raccolto in un libro (pubblicato in Francia, in America e in Italia da Il Saggiatore).
Nelle immagini, si fa la conoscenza di un industriale di Shanghai, arrivato in Nigeria nel 1970 dove ha realizzato un impero che include 15 fabbriche con 1600 operai, hotel, catene di ristoranti. Sulla penisola di Lekki, sta costruendo 544 villette per la Chevron. Poco oltre, c'è Chua Booan Lee; è in Congo e felice siede su una catasta di legno trasformato in strati. Li ha strappati alla foresta del paese per produrre impiallacciature.
«Tendo sempre a fare dei reportage lunghi e su tematiche che non sono le più battute - spiega il fotografo Paolo Woods - Lavoro con il giornalista Serge Michel e insieme cerchiamo storie particolari. Un altro nostro progetto ha riguardato le vie del petrolio. Il reportage cominciava nella città di George Bush, Midland in Texas e terminava un anno dopo nella città natale di Saddam Hussein; fra i due, scorrevano dodici paesi produttori di petrolio. Poi Serge è stato mandato da Le Monde in Africa. Abbiamo deciso di tenerci lontani dagli stereotipi con cui si guarda a quel continente. Volevamo mostrare qualcosa di diverso, che uscisse dall'ennesima storia con dei lati miserabilisti e tutti e due ci siamo domandati: cosa davvero sta cambiando in Africa? L'influenza dei cinesi è una questione enorme, rimarrà uno dei punti fermi della storia africana, proprio come la colonizzazione e la de-colonizzazione. Da qui abbiamo iniziato a indagare».

Come finanziate i progetti?
Ci autofinanziamo, i nostri sono reportage lunghi e costosi, ma da qualche anno abbiamo una serie di partner (editori, riviste, giornali) che pre-comprano i servizi, o almeno vengono informati che ci saranno e li acquistano al nostro ritorno. Se la storia è buona e funziona, veniamo in qualche modo rimborsati.

Crede di aver documentato una nuova colonizzazione?
Ho dei problemi a parlare di nuova colonizzazione per i cinesi in Africa. Il riutilizzo della parola può portare fuori strada. Ciò che sta accadendo è qualcosa di diverso. Lì nulla funziona come la colonizzazione classica. La Cina è una potenza economica che procede secondo le regole del capitalismo, ma differentemente dalle altre grandi potenze occidentali, Stati uniti, Europa o Russia, ha un bacino di manodopera a prezzi bassissimi. E vive su una interazione fra stato e privato. È un caso anomalo. Quando abbiamo iniziato a fare questo reportage, siamo andati a vedere cosa fosse stato scritto sull'argomento. Tutti gli articoli (eccetto naturalmente quelli della stampa cinese) erano profondamente negativi, con titoli come «pericolo rosso», «i cinesi arrivano», «la nuova colonizzazione». Si puntava sui diritti umani. Ovviamente, c'è della verità in questo, ma quando siamo andati sul posto, ci siamo accorti che esisteva tutta un'altra serie di storie. I cinesi agiscono in maniera estremamente capitalistica, le regole le detta il mercato. Se si trovano a essere imprenditori in un paese dove c'è un dittatore che li lascia liberi, fanno man bassa. Dove c'è più democrazia, si adattano. Se non c'è nessun salario minimo, pagheranno una miseria, se è previsto, lo rispettano. Hanno una necessità enorme di manodopera africana. Inoltre, lavorano in modo diverso. Una compagnia occidentale che va a cercare il petrolio in Angola, chiede al governo quanto vuole per quel dato pozzo, paga la cifra e si impianta lì. I cinesi si mettono d'accordo con i governi locali: costruiscono infrastrutture, dighe, ferrovie, strade e in cambio chiedono l'utilizzo delle risorse, petrolio, bauxite, ferro, oro.

E i rapporti fra imprenditori e operai locali?
In Africa, ci sono anche tanti lavoratori cinesi, non solo imprenditori. Senza entrare nei clichés, direi che non ci sono al mondo due culture del lavoro più distanti. La real politik e la globalizzazione hanno obbligato cinesi e africani a condividere spazio, tempo, lavoro, senza nessuna affinità fra le loro culture.

Avete avuto problemi nelle varie tappe del reportage?
Le mie foto non sono mai rubate. Mi interessava passare del tempo con i cinesi. Io e Serge siamo così stati con loro intere giornate e settimane. Stare con gli operai africani era più semplice, ma essere dall'altra, molto meno. Volevamo documentare con numeri, immagini, frasi, quello che succedeva. Ci siamo resi conto che era una storia difficilissima. In Iraq, quando documentavamo il petrolio, sapevamo che le compagnie non volevano parlare con noi, quindi abbiamo proceduto intervistando la gente comune. In Africa, volevamo capire il cinese imprenditore, andare con lui nella foresta dove tagliava il legno, restare dove costruiva una diga. I cinesi non sono abituati alla stampa libera e hanno regole governative che vieta loro di parlare con i giornalisti. Passare attraverso questo muro è stato complicato.

Come è iniziata la passione per la fotografia?
Mi sono avvicinato al reportage negli anni 90, grazie a un collega italiano, Paolo Pellegrin, che mi aveva invitato a andare con lui in Kosovo, durante la guerra. La mia sensibilità si è mossa poi lontano dal reportage classico e ha sempre cercato di avvicinarsi a una fotografia di indagine, sociale, politica, antropologica. Continuo a fotografare in analogico, in medio formato, con una Hasselblad che è una macchina da studio, con una qualità maggiore delle digitali e che mi obbliga a una certa lentezza.

Qualche maestro di riferimento?
Alla base, ci sono maestri molto vecchi come Dorothea Lange perché aveva un approccio antropologico alla fotografia. Ma adoro anche Martin Parr. È distante dal mio lavoro, però penso che possa influire sui punti di vista e cambiarli.

Che ruolo può avere oggi la fotografia nel flusso ininterrotto di informazioni cui siamo sottoposti?
Un ruolo fondamentale, di approfondimento, non solo di superficie. Basti pensare alla guerra dell'Iraq. Le immagini che più facilmente vengono in mente non sono spezzoni di tv, ma quelle fatte dai soldati americani a Abu Ghraib, le stesse dipinte sui muri in Palestina. Sono quelle che rimangono nell'immaginario collettivo.

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