C'è voluta ancora madre natura per riproporre il dramma del Myanmar all'attenzione del mondo occidentale. L'uragano Nargis ha risvegliato le coscienze di chi, per una decina di giorni nell'autunno del 2007, era sceso nelle piazze di mezza Europa in difesa delle toghe arancioni al grido di «Siamo tutti birmani». Poi, abbagliato dalla torcia olimpica, è sceso in piazza gridando «Siamo tutti tibetani», sostituendo le immagini di Aung San Suu Kyi con quelle del Dalai Lama. Domani chissà, si rispolvereranno le magliette rosse dimenticate nei cassetti. Nel frattempo in Myanmar i generali hanno continuato imperterriti a fare ciò che hanno sempre fatto da quarantacinque anni a questa parte: tenere imprigionato un intero popolo.
Ma il tifone che ha spazzato il delta dell'Ayerwaddy è riuscito a compiere un'impresa che nessuno, neppure Aung San Suu Kyi con il suo carisma e la sua determinazione, è mai riuscita a raggiungere: migliaia di soldati del Tatmadaw, le forze armate birmane, stanno disertando per avere notizie dei loro familiari. Un'ondata di militari, questa volta allo sbando, incuranti degli ordini ricevuti dai loro superiori, abbandonano le caserme alla volta dei villaggi d'origine. Le infrastrutture, già precarie in tempi normali, non riescono a far fronte al flusso di gente impaurita, ferita, affamata, disorientata che vaga da una parte all'altra della regione in cerca di parenti, amici. Le strade, sommerse dall'acqua sono pressoché impraticabili; l'unico modo di raggiungere i villaggi isolati restano dunque i traghetti (pochi), le navi e gli elicotteri militari.
La giunta, dopo un momento di smarrimento dovuto più che altro alla cronica incapacità di capire cosa esattamente era accaduto nel paese, alla fine ha ceduto all'insistenza dell'Onu e delle organizzazioni umanitarie, accettando aiuti. A patto che siano loro, i generali, a gestire l'emergenza. Un diktat che le associazioni internazionali e le multinazionali, da sempre alla ricerca di un modo «politicamente corretto» per fare affari con la giunta, hanno allegramente accettato. In questo senso Nargis rischia di trasformarsi in una provvidenziale zecca che potrebbe rimpinguare le casse dello stato, del resto mai particolarmente provate dall'embargo imposto dall'Europa e dagli Stati uniti. «Era già successo dopo lo tsunami del 2004: per portare gli aiuti alle popolazioni colpite abbiamo dovuto pagare gli amministratori locali dal livello più basso a quello più alto», spiega un coordinatore della Caritas di Pathein. Poi continua: «Ora con tutte le organizzazioni che si sono offerte per intervenire, i "regali" a questi amministratori dovranno essere aumentati. E' assurdo ma è così: dobbiamo pagare il governo per aiutare i suoi stessi cittadini, abbandonati da chi per primo dovrebbe soccorrerli». Le organizzazioni dell'opposizione birmana chiedono di non dare soldi direttamente al paese, invitando eventuali benefattori a donare sui loro conti bancari in Thailandia. Risulta però poco chiaro come dalla Thailandia i soldi possano passare direttamente alle popolazioni colpite, visto che queste organizzazioni, da decenni lontane dai villaggi d'origine, hanno pochi contatti con le realtà locali del Myanmar.
Nargis non cambierà certo lo status quo della nazione, ma in una paese dove la superstizione e l'astrologia sono parte integrante della politica e ne determinano le scelte più importanti, il disastro naturale potrebbe essere interpretato come un avvertimento da parte degli astri contrariati dalle scelte della giunta militare. Questo, almeno è ciò che nei monasteri i monaci stanno affermando. Da parte loro i militari possono avvalersi dal fatto che la loro nuova capitale, Naypydaw, sede del governo, non è stata colpita, concludendo che l'irritazione divina non è diretta contro il loro governo ma è una punizione verso le manifestazioni organizzate dai monaci a Yangon e in altre città del sud nel 2007, tutte pesantemente afflitte dall'uragano.
I generali hanno già fatto sapere che il referendum sulla nuova bozza costituzionale disegnata dalla Commissione nazionale, prevista per sabato 10 maggio, non subirà rinvii se non nei ventisette distretti più colpiti dal tifone. Aung San Suu Kyi, da parte sua, ha invitato a rifiutare la bozza, che perpetuerebbe il potere dei militari e impedirebbe a lei, in quanto sposata con uno straniero (anche se vedova), di coprire ruoli di vertice in un eventuale governo di coalizione.
Un eventuale rifiuto della Costituzione potrebbe riportare il Myanmar in una situazione di instabilità sociale, ridando vigore al National League for Democracy dopo che il partito ha perso parte della fiducia che la popolazione birmana vi aveva riposto, eclissandosi durante le manifestazioni dello scorso anno. I militari, nel loro gretto senso di superiorità, hanno fatto di tutto per non avere tra i piedi troppi stranieri durante il «loro» referendum. Nargis ha scombussolato i loro piani. Chissà che non sia proprio questo tifone a scardinare i cancelli del 54 di University Avenue e a scatenare un altro uragano. Questa volta sociale.