PRIMA

L'estetica municipale

Ara Pacis
CIORRA PIPPO

Del Museo dell'Ara Pacis di Richard Meier ci è capitato di discutere su queste e su altre pagine l'ostilità pelosa degli architetti romani, l'ardore antimoderno dei reazionari di destra e dei conservatori di sinistra, le sparate a vanvera di Sgarbi e le critiche sottili di chi sotto sotto quel progetto lo voleva fare lui. Poi il museo è entrato in funzione e lo scontro estetico è rapidamente sfumato nell'enorme successo del progetto.
Oggi l'Ara Pacis ospita mostre e iniziative importanti e attira ogni giorno un numero spaventoso di visitatori, collocandosi stabilmente tra i primi cinque musei romani «per numero di biglietti staccati». A quel punto pensavamo che il tormentone fosse finito. Che l'edifico di Meier avrebbe avuto tifosi e detrattori come avviene per ogni nuova costruzione d'autore. Che il raffronto tra lo stato di semiabbandono depresso e poco frequentato della vecchia teca di Morpurgo e le migliaia di persone che ogni giorno accedono allo spazio realizzato dal progettista americano bastasse a chiudere la discussione. Nessuno di noi è obbligato a farsi piacere la nuova Ara Pacis, così come nessuno era obbligato a suo tempo a farsi piacere la cupola di Brunelleschi o la Casa del Fascio di Terragni a Como, senza però per questo sentirsi in dovere a mettersi alla testa di una crociata demolitrice. Invece Alemanno con la sua improvvida sortita ci costringe a tornare sull'argomento per ribadire due o tre concetti dai quali non si può prescindere. Il primo è che si tratta di una questione orrendamente bipartisan. Il primo atto da sindaco di Cofferati fu quello di far demolire, dando ragione a una compagine molto simile a quella che in questi anni ha osteggiato l'Ara Pacis, l'infobox troppo modernista realizzato da Mario Cucinella in Piazza Re Enzo. In quella occasione criticammo il sindaco di Bologna, non tanto per la demolizione in sé - Cofferati non fece che anticipare di qualche mese una rimozione già prevista - quanto per il valore simbolico che un gesto del genere poteva assumere, sia come atto platealmente «antimoderno» sia come esempio della cattiva pratica amministrativa di chi comincia smontando le realizzazioni di chi lo ha preceduto. La demolizione dell'Ara Pacis sarebbe naturalmente molto più grave, poiché in questo caso si tratta di un edificio importante già ben inserito nella vita della città, e che ha peraltro risolto un evidente problema di inadeguatezza e inaccessibilità della vecchia sistemazione. La seconda questione, sembra strano doverla ribadire, è che non esiste un'architettura «attuale» ma «non moderna», così come non esiste - lo spiegava ieri con magistrale chiarezza Bonito Oliva - un'estetica «di stato» o peggio municipale. Lo spettro di Leon Krier, che viene agitato ogni volta che una città intenda votarsi alla costruzione di un'immagine astrattamente «tradizionale», è già comparso più volte sul cielo di Roma. Ogni volta però è anche tramontato rapidamente, perché Krier è bravissimo nel costruire «repliche» delle città ottocentesche, o di borghi inglesi in stile Principe di Galles rallegrati da colorini e domesticità molto nemiche del «logorio della vita moderna» (ma molto amate dai costruttori). A Roma Krier ha sempre proposto di ispirarsi alla magniloquenza e alla tradizione monumentale ma la cosa non ha mai funzionato, forse per l'abbondanza locale di veri resti del passato. Ieri il nuovo sindaco, forse consapevole di aver corso un po' troppo, ha detto che non si tratta di una priorità e che a decidere sarà piuttosto un referendum tra i cittadini. Per carità, no. L'uso del referendum in questo settore è davvero un'arma a triplo taglio, del tutto inadatta a dirimere le nostre questioni. La responsabilità delle scelte urbanistiche e architettoniche è tra le prime prerogative di un sindaco, uno dei primi compiti che gli elettori gli affidano. Che ci sia piaciuto o no Rutelli si è preso l'onere e i complicati onori della scelta di Meier, Veltroni ha avuto i suoi architetti, Alemanno legherà il suo nome ad altre opere, speriamo altrettanto capaci di suscitare consenso e discussione. L'«opinione pubblica» non è legittimata a sostituirsi all'architetto così come non si sceglie per referendum la cura di una malattia, una strategia economica o gli sviluppi di una sceneggiatura teatrale. Peraltro questi referendum non funzionano: i cittadini tendono a rifiutarsi, partecipando in percentuali che svuotano di senso la consultazione, com'è avvenuto nel caso recente del nuovo tram a Firenze. L'Ara Pacis però non è solo polemiche e critica distruttiva. Visto da un altro punto di vista il suo innegabile successo «di pubblico» è invece la dimostrazione che a Roma c'è una concreta domanda di contemporaneo, e che i nostri amministratori sono forse stati finora troppo timidi nel tradurre in realtà i mille programmi di cui a Roma si parla da decenni. Speriamo che Alemanno, che abbiamo visto in televisione sperticarsi di lodi per le riqualificazioni urbane di Berlino, Londra, Parigi, non voglia fare un dietrofront così rapido, per riportare l'architettura romana nel clima scettico e immobilista degli scorsi decenni.

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