Giovedì scorso a Trieste duecento nazifascisti del gruppo Gud (gruppo unione difesa) di Trieste edel Fronte veneto degli skineads, hanno celebrato davanti al monumento alla foiba di Basovizza, la loro giornata contro il 25 aprile, con tanto di ripetuti saluti romani, nelle stesse ore in cui gli antifascisti e le autorità celebravano l'anniversario alla Risiera di di San Sabba, l'unico campo di sterminio nazista in italia con annesso forno crematorio. E in mattinata nell'Hotel Milano convegno sui «crimini dei vincitori». Il 25 aprile del 2007 sempre a TRieste apparve sui muri un manifesto che recitava: «25 aprile: l'Italia è l'unico Stato al mondo che celebra una sconfitta», mentre 300 naziskin in camicia nera e con saluto romano sfilavano gridando che il 25 aprile «è la festa degli infoibatori». Altrove e in Italia vengono ricordati gli episodi di resistenza di alcune unità dell'esercito italiano a Cefalonia, in Francia e in Albania.
Ma sempre si continua a tacere sul contributo più alto dato dagli italiani alla Resistenza all'estero, quello di oltre 40.000 soldati unitisi ai partigiani in Jugoslavia. Eppure, almeno la memoria di questa partecipazione potrebbe rispondere ai tanti, troppi revisionismi e all'odio antislavo che l'estremismo fascista continua ad alimentare. Un contributo documentato in una serie di libri scritti da Stefano Gestro, Alfonso Bartolini, Gabrio Lombardi e da alcuni altri protagonisti e storici. Ricordo anche un convegno, svoltosi a Lucca nel novembre del 1980 che fruttò un denso volume di rievocazioni e saggi su Il contributo italiano alla resistenza in Jugoslavia pubblicato nel 1981 con una prefazione dell'allora Presidente della Repubblica italiana Sandro Pertini. Riferendosi a un mio intervento al convegno, Pertini scrisse: «Ha perfettamente ragione Giacomo Scotti quando sostiene nella sua relazione che la nascita del nuovo esercito italiano inteso come esercito democratico antifascista e parte integrante della coalizione antihitleriana nella seconda guerra mondiale deve essere anticipata alcuni mesi prima della storica battaglia per la conquista del Monte Lungo a Cassino».
Proposi allora e ripropongo oggi di anticipare la data al 9 ottobre 1943, giorno in cui la Divisione di fanteria da montagna «Venezia» passò al completo e con tutte le armi nel II Korpus dell'Eplj. Dopo essere stata decimata in sanguinosi scontri con i tedeschi nel fallito tentativo di raggiungere la costa adriatica, si unì ai partigiani di Tito con i suoi reparti superstiti anche la Divisione alpina «Taurinense». Insieme diedero vita alla Divisione Partigiana Italiana «Garibaldi», che rientrerà in patria con poco più di cinquemila uomini, quasi tutti insigniti di Medaglie al Valore della Resistenza jugoslava.
Sui fronti, dappertutto
Con 20.000 caduti gli italiani riscattarono l'onore del loro paese, infangato dal fascismo con l'aggressione dell'aprile 1941 e con la terribile occupazione protrattasi fino al settembre 1943. Sacrificarono ventimila vite, la metà circa dei combattenti per la liberazione dei popoli della Slavia meridionale. Infatti, la Divisione «Garibaldi», che operò in Montenegro e in Bosnia, non fu l'unica a combattere sotto la bandiera italiana con la stella rossa contro il nazifascismo in quel paese. Gli italiani partigiani formarono compagnie, battaglioni, brigate ed altre divisioni in Croazia, in Slovenia, in Dalmazia e in Istria: la Divisione partigiana «Italia» operò dalla Bosnia alla Serbia e poi in Croazia fino alla liberazione di Zagabria; la Divisione partigiana «Garibaldi-Natisone» operò in Slovenia dove combatterono pure le brigate autonome «Triestina d'Assalto» e «Fratelli Fontanot»; un battaglione «Mameli» operò nel retroterra di Zara, nella II Brigata della Krajina (Croazia) fu costituito il Quinto battaglione italiano al comando del tenente Domenico Flores, siciliano; nella III Brigata dalmata (poi nella IV Brigata di Spalato) operò il battaglione italiano «Ercole Ercoli»; varie compagnie italiane furono inserite nella V e nella IV Brigata della Krajina bosniaca; una compagnia «Garibaldi» divenne il secondo nucleo della Prima Brigata partigiana macedone-kosovara combattendo nel Kosovo e in Macedonia. Troviamo poi un gruppo di artiglieria composto da più di 300 italiani nella XIII Divisione croata del Litorale croato e Gorski Kotar; un altro battaglione italiano fa parte della XIII Brigata d'assalto della 29ma Divisione dell'Erzegovina; un battaglione «Garibaldi» forte di 800 uomini, formato da soldati dei disciolti reparti di Guardie alla Frontiera, combatte per alcuni mesi alle spalle di Fiume prima di venir sbaragliato dai tedeschi ed i superstiti vengono accolti in diverse formazioni slovene e croate.
D'oltremare e del cielo
E ancora: in Istria operano i battaglioni «Giovanni Zol» ed «Alma Vivoda» anch'essi poi decimati nei primi mesi successivi all'8 settembre 1943, ed il battaglione «Pino Budicin» che opera fino alla fine della guerra in Istria, nel Gorski Kotar e altrove. Nelle formazioni croate dell'Istria, Prima, Seconda e Terza brigata della 43ma divisione, militarono altri tremila italiani singolarmente, a gruppi e plotoni, gli italiani erano peraltro sparsi in quasi tutte le formazioni partigiane jugoslave, dalla sponda dell'Adriatico fino alla Vojvodina.
Un posto speciale occupa una formazione di combattenti che varcarono spontaneamente l'Adriatico per unirsi ai partigiani jugoslavi. Giunsero e combatterono nel periodo marzo 1944-aprile 1945 dalle regioni meridionali della Penisola, arruolandosi nelle Brigate d'Oltremare costituitesi in Puglia con l'adesione di ex detenuti politici e di ex deportati dalla Venezia Giulia e dalla Dalmazia. Insieme a circa 30.000 sloveni e croati cittadini italiani, si arruolarono alcune migliaia di italiani «regnicoli». Ci fu un battaglione, «Antonio Gramsci» forte di 800 uomini, composto esclusivamente da volontari affluiti da Sicilia, Puglia, Calabria e da altre regioni dell'Italia meridionale.
Nelle formazioni di Tito militarono antifascisti d'ogni regione d'Italia, umili contadini, operai e professori universitari, medici e cappellani, antifascisti di vecchia data e giovanissimi, donne perfino. Particolarmente folta fu la schiera degli ufficiali medici militari passati nelle file partigiane: una quarantina di tutte le regioni italiane, ad essi vanno aggiunti sette medici, sempre italiani, arrivati volontariamente della Svizzera, fra essi il chirurgo Ennio Canevascini, altri tre giunsero sempre volontariamente dall'Italia meridionale: il mantovano Mario Viosioli, il fiorentino Ferruccio Ciappi e il ferrarese Osvaldo Toni, aviolanciati a Berane in Montenegro. Vanno ancora ricordati alcuni medici che sacrificarono la vita combattendo in Jugoslavia come il colonnnello Antonio Leccese napoletano, il capitano Sergio Chiodi di Ferrara, il tenente Bruno Di Staso bolognese e i capitani Pasquale Scibelli, Puerari e Guidi. C'erano pure due fanfare militari, composte da musicisti italiani, una nella II Brigata d'assalto dalmata e un'altra nella 50ma Divisione serba. Quattro piloti italiani si arruolarono nell'Aviazione partigiana jugoslava che ebbe in tutto una ventina di piloti: Ciro Vrabich, Mario Semoli di Monfalcone, Leonida Braga di Milano e Luigi Rugi di Zara. Quest'ultimo fu l'ultimo caduto fra i «partigiani del cielo».Non dobbiamo dimenticarli. Le loro storie parlano all'oggi.