CULTURA

Una transizione sulla cresta della rete

dentro lo schermo Il male più grande e il peggiore dei delitti è la povertà George Bernard Shaw
TERRANOVA TIZIANA,

Che relazione esiste o può esistere tra la comunicazione di massa - con la televisione lottizzata secondo logiche di egemonia culturale per quanto riguarda l'entertainment e la «politica» - e l'universo cangiante, variegato, frammentato e in costante mutazione dei media digitali? Dopo la prima ondata di teorizzazioni su come i nuovi media fossero destinati a soppiantare una volta per tutte la vecchia e opprimente cultura di massa per dare vita a una nuova cultura democratica, partecipativa e dal basso, arriva il momento della cultura convergente, cioè l'idea che siamo nel pieno di una coesistenza tra vecchi e nuovi media. Ovviamente è una coesistenza creativa, che alimenta un insieme di trasformazioni dell'industria culturale la cui dinamica è di gran lunga più interessante che non il suo eventuale approdo.
Da medium a medium
Nella prefazione all'edizione italiana dell'ultimo libro di Henry Jenkins Cultura Convergente (Apogeo, pp. 368, euro 22), uno studioso noto per il suo precedente lavoro sulle comunità dei fans, l'autore collettivo Wu Ming lamenta l'arretratezza della discussione italiana su vecchi e nuovi media, ancora basata sul «panico morale» derivante dagli «effetti nefasti» dei media digitali sulle nuove generazioni, oppure impastoiata nella vecchia contrapposizione tra cultura d'elite e cultura di massa. Il merito del libro di Jenkins, considerato da Wu Ming una ventata d'aria fresca per la sua chiarezza anglosassone e per la ricchezza empirica dei materiali presentati, risiede nel fatto che il saggio evidenzia come la trasformazione in atto possa favorire la sperimentazione di nuove strategie di comunicazione politica all'interno di un «campo» dominato dalla lottizzazione sfrenata degli spazi-tempi televisivi, da un rinnovato ricorso alla propaganda, dal sensazionalismo e dalla cacofonia prodotta da voci che cercano incessantemente di sopraffarsi a vicenda.
La messa in discussione dei vecchi media, ma soprattutto del vecchio modo di fare comunicazione e cultura, nasce dal calo di «consensi e vendite» per l'industria dell'intrattenimento statunitense. Da qui le risposte fornite dalla stessa industria dell'intrattenimento che riconosce e accetta (almeno fino a un certo punto) i cambiamenti in atto nella «attività del consumo» (da passiva ad attiva, da stanziale a nomade, da silenziosa a rumorosa, da invisibile a visibile). Di conseguenza, la cultura convergente è anch'essa una «cultura nomade» all'interno della quale sia i contenuti che i consumatori di comunicazione sono impegnati in un movimento incessante di «trans-mutazione» mentre vagano da canale a canale, da medium a medium, inventando in questo «movimento» nuovi modi di pensare, di narrare, di immaginare e interpretare la realtà circostante. Cultura Convergente altro non è che la descrizione della mutazione in atto nell'industria dell'intrattenimento.
Finestre sulla rete
Henry Jenkins correda la sua tesi con una massa imponente di dati provenienti dalla sua esperienza di direttore del prestigioso «Comparative Media Studies Programme» al Mit di Boston, una posizione che lo porta a frequentare un gran numero di imprenditori, politici, pubblicitari e a interloquire con altrettanti ricercatori che forniscono, in questo caso, analisi, riflessioni attorno ai molti case studies esposti nel volume. Lo stile espositivo scelto dall'autore è d'altronde quello delle «istantanee», di «finestre» cioè che Jenkins disperde per il volume come esempi di alcune tendenze in atto. Emerge quindi una lettura a tratti apologetica della transizione in atto. L'autore tuttavia non evita di fare i conti con il lato oscuro della cultura convergente, come ad esempio è il voyeurismo del corpo femminile attraverso la messa in rete degli spogliarelli delle cheerleaders; o quando descrive l'uso fatto dall'esercito americano dei videogiochi per aumentare la partecipazione popolare alla guerra in Iraq; o di nuove e inquietanti forme di relazioni affettivo-sessuali, come nel caso degli innamorati giapponesi che si vedono poco ma vivono in costante contatto virtuale attraverso Sms, chat-line e così via.
I vari capitoli del libro sono inoltre dedicati alla relazione tra la cultura partecipativa delle reti e il mondo della neo-Tv (i reality shows come Survivor e American Idol, le versioni americane dei nostrani Isola dei Famosi e X Factor), del cinema (l'agguerrita comunità di fans di Star Wars, il modello narrativo transmediale di The Matrix) e l'editoria (i giovani scrittori che riscrivono Harry Potter, le diverse comunità religiose che cercano di tessere relazioni al di là degli anatemi papali), mentre l'ultimo capitolo è dedicato alla tesi più esplicitamente politica del libro.
Politica dal basso
Per Jenkins, le abilità acquisite dai consumatori di cultura popolare organizzati in rete possono eventualmente tradursi in una capacità di auto-organizzazione in grado di mutare anche il modello «top-down» dell'agire politico, come è accaduto nel caso della campagna elettorale americana del 2004 che vide l'attiva partecipazione, attraverso la rete e network radiofonici, di molti gruppi di base a sostegno di entrambi i candidati. La centralità della cultura popolare nella formazione della cultura politica è un tema che l'autore mutua dai cultural studies, ma in questo volume è concettualizzata come la possibilità di un transfer di competenze dalla cultura popolare partecipativa di rete alla cultura politica: un transfer, tuttavia, più auspicato, e auspicabile, che dimostrato.
Cultura Convergente propone infine una sintesi della molteplicità dei punti di vista dei protagonisti della comunicazione impegnati a definire i contorni di questa mutazione (capitani d'industria, creativi, attivisti, gruppi religiosi, fans, artisti, educatori), anche se privilegia come interlocutori l'industria dell'intrattenimento e della pubblicità.
La sfida della convergenza - concepita come fenomeno culturale e sociale piuttosto che meramente tecnico - è vissuta dalle major in modo ambivalente: da una parte è vista come una possibilità di espansione del mercato dell'intrattenimento; dall'altra come un «rischio di erosione o frammentazione dei mercati». Stimolanti a questo proposito sono le riflessioni svolte dall'autore attorno ai periodici incontri dei protagonisti del mercato mediatico statunitense - come la New Orleans Media Experience del 2003 - tutti impegnati nel difficile sforzo di capire le strategie di sopravvivenza e successo in questo nuovo mercato che è appunto la cultura convergente.
Jenkins è quindi un testimone delle difficoltà dell'industria del cinema, del software e dei videogiochi di sincronizzare e sintonizzare i diversi ritmi produttivi e strategie imprenditoriali (corporation eterogenee definite dall'autore come «una famiglia disfunzionale»). Interessante, ma appena accennato, anche il ruolo del cosiddetto lavoro immateriale e creativo in questo contesto, con registi, artisti e scrittori a funzionare da cerniera creativa, ma anche luogo di tensione tra i due mondi. Il processo di formazione della cultura convergente va quindi inteso come l'esito di una virtualizzazione dell'industria dell'intrattenimento nel senso indicato dal filosofo francese Pierre Lévy.
Un processo che scompone gli equilibri di mercato e di impresa, provocando un senso di indeterminazione. Secondo Jenkins, tuttavia, il problema fondamentale della cultura convergente è il mutamento dei rapporti di forza tra grandi corporation e consumatori a favore di questi ultimi grazie al ruolo svolto da una cultura partecipativa della rete che privilegia, si nutre e favorisce una dinamica orizzontale e paritaria, che tuttavia favorisce, per quanto riguarda le imprese dell'intrattenimento, le caratteristiche del parassitaggio à la Serres, o l'evoluzione a-parallela teorizzata da Gilles Deleuze.
Economia affettiva
Il motore di questo processo è l'economia del branding, strategia che il mondo del marketing concettualizza come instaurazione di una «economia affettiva», incoraggiando così le aziende a trasformare i marchi in quelle che gli imprenditori chiamano lovemarks e a sfumare la linea di confine tra contenuti dell'intrattenimento e messaggi pubblicitari. Secondo la logica dell'«economia affettiva», il consumatore ideale è infatti «attivo, affezionato, e connesso socialmente». Il consumo di una merce è dunque da considerare un atto all'interno di una strategia di costruzione di comunità, di attivazione di una relazione sociale tra consumatori/produttori. Ma questa entrata del pubblico/comunità nella franchise, lungi dall'essere solo un feticcio di partecipazione, segna anche, grazie alle dinamiche della rete, la crisi del rapporto tra consumatori e imprese (la cooperazione si spezza secondo una linea antagonista dove quello che è in gioco è l'investimento affettivo nel marchio). La tensione che attraversa il libro è appunto centrata su questa relazione che assume la forma di una guerra latente punteggiata da tregue temporanee, che può sfociare nella cooperazione o, all'opposto, nel conflitto aperto.
Una guerra quindi che non si conduce solo nei momenti di scontro frontale, ma anche attraverso i momenti di tregua (in questo movimento continuo di arretramento e avanzata che è la danza tra i consumatori e l'industria). Per Jenkins, infatti, la partecipazione non è da ridurre solo a una cooptazione di attitudini, stili di vita da parte delle imprese, ma anche un momento importante di costruzione di una tendenza di lunga durata: «siamo in un'era di transizione mediale segnata da decisioni tattiche e conseguenze accidentali, segnali confusi e conflitti d'interessi, e soprattutto dalla presenza di direzioni ipotetiche e di risultati imprevedibili». Come sostiene Wu Ming nella prefazione al libro, questo ci sembra un bel passo avanti rispetto alla situazione italiana, dove la guerra d'informazione è spettacolare occupazione degli spazi televisivi che tende ad oscurare i mutamenti che si stanno registrando a livello di cultura convergente anche nel nostro paese.
Tuttavia, questo affresco non dovrebbe indurre a sottovalutare i limiti del libro. In primo luogo, come scrive lo stesso Jenkins, il libro si concentra su una fascia alta di alfabetizzazione informatica, quella degli early adopters (bianchi, maschi, colti, facoltosi). Ma la dinamica dei numeri in un processo caotico conta, e lo stesso Jenkins dichiara di non sapere bene quali trasformazioni qualitative potrebbero risultare nel momento in cui questa partecipazione profonda, molto sofisticata, alla cultura convergente dovesse espandersi.
Imprenditori di se stessi
Meno evidente è il modo in cui Jenkins affronta i due eccessi che caratterizzano la rete - di partecipazione del pubblico, che è esemplificabile nel download illegale di musica e film, di controllo da parte delle imprese proprietarie dei marchi -, allo scopo di individuare un nuovo equilibrio tra consumatori e produttori. Cultura convergente è dunque anche un esempio affascinante della ambivalenza e pervasività di un modello economico basato solo sul consumo. Il consumatore di Jenkins rimane infatti un homo oeconomicus, nel senso analizzato da Michel Foucault nelle sue lezioni sul neo-liberalismo. Un soggetto cioè che agisce economicamente, nel senso che esso è, più che un singolo che svolge un «lavoro» di decodifica e rappresentazione, un imprenditore il cui capitale è costituito dalle proprie competenze, tempo, energia e passione. E che sceglie di investire in certe attività di consumo per ricavarne reddito, e dunque piacere, senso di potenza, appaganti relazioni sociali.
La centralità del pensiero economico neoliberale nella teorizzazione della cultura convergente è tuttavia molto sospetta. Nonostante la celebrazione dell'indeterminazione e del caos inerenti al processo di convergenza, non stanno, i teorici neoliberali, ricercando ancora una volta un nuovo ordine fra i diversi soggetti della comunicazione in un modo che non spaventi troppo l'industria, lasciando gli equilibri di fondo sostanzialmente immutati?

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