VISIONI

Lacrime e sorrisi sotto una luna di confine

CATACCHIO ANTONELLO,Miami

Davanti al Gusman Theater è tappeto rosso. La folla è numerosa e festante. Poi, quando arrivano Kate del Castillo, Eugenio Derbez e il piccolo Adrian Alonso è delirio. Come si conviene ai grandi divi. A noi forse quei nomi non dicono molto, ma per gli appassionati di telenovelas sono invece autentici personaggi di culto, anzi Derbez è il più acclamato attore comico messicano. Per questo quando approdano per la proiezione inaugurale del festival, protagonisti di un film è festa grande. Il film è La misma luna (Under the same moon) di Patricia Riggeri (uscito anche nelle sale piazzandosi al decimo posto assoluto in classifica nel primo week end). Nella sala tutta stucchi e delirio kitsch si sprecano lacrime e risate. Perché la storia è molto sentita. La protagonista è Rosario, madre del piccolo Carlitos, nove anni. Lei è emigrata clandestinamente negli Usa da ormai quattro anni. L'unico legame che ha con il figlio è la telefonata domenicale attraverso la quale cerca di tenergli alto il morale con la prospettiva che prima o poi riusciranno a vivere insieme, per il momento deve accontentarsi di guardare la luna nei momenti di nostalgia, con la consapevolezza che anche mamma la guarda e che entrambi sono sotto la stessa luna del titolo.
Poi tutto precipita, la nonna che accudisce Carlitos muore e lui decide di intraprendere la strada che tutti i clandestini intraprendono, cercando di attraversare il confine in barba alla migra, la polizia che combatte gli immigrati e con tutti i rischi di cattivi incontri tra sciacalli e profittatori. Una storia drammatica, realistica che non risparmia colpi bassi (le lacrime) e momenti più ironici (le risate). Seppure il confine della storia sia quello californiano, il pubblico di Miami, dove più della metà della popolazione è di lingua spagnola, quindi immigrati, spesso clandestini poi regolarizzati (e molti sono ancora senza le carte in regola) partecipa con altissima adesione emozionale. Questa volta non sono più i divi delle telenovelas a smuovere i cuori, ma la storia raccontata in cui tutti in qualche modo si identificano.
L'idea di inaugurare la venticinquesima edizione del festival con un film che affronta un problema tanto controverso, schierandosi con i clandestinos, seppure sentimentalmente, è un chiaro segnale del fatto che l'attenzione è rivolta al pubblico prima ancora che alle istituzioni. Due sezioni specifiche sono infatti dedicate al cinema latinoamericano, una di fiction e una di documentari, pescando a piene mani tra le produzioni delle diverse realtà. Tentativo di mantenere un filo culturale ideale con i paesi d'origine, ma anche tentativo di far conoscere ai gringos le realtà dalle quali provengono molti dei loro concittadini.
Del resto quasi negli stessi giorni si tiene anche il festival di Calle Ocho, la strada principale di Little Havana, un tempo festa dei fuorusciti cubani, ora festa di tutte le comunità con un'infinità di palchi lungo la strada che diffondono musica caraibica e latina, banchetti con specialità colombiane, venezuelane, argentine, peruviane, messicane e naturalmente cubane, in uno sventolio di bandiere di tutti i paesi. Una sagra che quest'anno ha fatto confluire, secondo gli organizzatori, un milione di persone. E ogni angolo delle stradine adiacenti diventa parcheggio a pagamento con i ragazzini entusiasti nel rimediare qualche dollaro cercando di incastrare quante più auto è possibile davanti alle porte delle modeste abitazioni.
Messico di nuovo sugli scudi con l'esordio alla regia di Gael Garcia Bernal che ha presentato Deficit, dove compare anche come protagonista. Siamo nel giro dei messicani ricchi, quelli che trafficano e lavorano di finanza a livello mondiale e possiedono ville con piscina. E il film racconta di questa gioventù dorata e distratta, abituata ad avere tutto come se fosse tutto dovuto. Intorno a loro i messicani poveri, spesso di origine india, trattati sovente con malcelato razzismo. Perché poi il problema non è tanto quello del rapporto tra gringos e immigrati, ma quello mondiale tra chi ha e chi non ha. E Bernal, pur puntando il suo obiettivo sui rampolli di buona famiglia (si fa per dire perché tra le righe si scopre che i genitori sono in Svizzera per cercare di rimediare a malefatte che potrebbero portare in galera), lascia intravedere una realtà molto diversa da quella dei pieghevoli turistici e del luogo comune del messicano pisolante sotto l'enorme sombrero.
C'è spazio anche nel documentario con il messicano Everardo Gonzalez Reyes che ha fatto il suo sporco lavoro con Los Ladrones Viejos. La macchina da presa è in carcere per raccogliere i ricordi testimonianza di una serie di vecchi ladri e rapinatori, quelli che non hanno mai usato un'arma per compiere le loro imprese. E talvolta di imprese vere si è trattato come racconta El Carrizos quando ha rubato a casa del presidente della repubblica, nonostante la guardia dei soldati. È un riso amaro quello che esce da queste storie di guardie (corrotte, come il mitico Dracula) e ladri (etici, perché non hanno mai rubato a un povero, solo qualcosina a gente ricca che certo non ne avrebbe risentito economicamente), con immagini di repertorio del Messico di qualche tempo fa alternate ai picareschi racconti di questi uomini dotati di un loro particolare talento. Purtroppo illegale. Nonostante tutto però El Carrizos il suo obiettivo l'ha raggiunto. Da piccolo quando faceva la fame e viveva in una famiglia disastrata si era ripromesso che ai suoi figli avrebbe fatto fare una vita diversa. C'è riuscito, la moglie ha una casa in un quartiere residenziale e si presume che i figli abbiano usufruito dei vantaggi economici derivanti dall'impresa paterna. Certo, lui è in galera, ma non gli importa, dice, con una parlantina ineffabile e una faccia da indio capace di intortare chiunque.
Altro documentario, questa volta però indigeno, Miami Noir: The Arthur E. Teele Story, realizzato da Joshua Miller e Sam Rega, due studenti della locale università. Anche in questo caso il nome di Teele a noi dice poco, a Miami invece è stato un personaggio politico di spicco per diversi anni, afroamericano e repubblicano. La sua gloria è finita quando è stato accusato di frode e corruzione. Accuse probabilmente fondate, anche se non si è mai arrivati al processo perché la storia ha preso una svolta imprevedibile. Sbertucciato dai media locali, Teele ha visto tutta la sua vita rivoltata come un calzino e dalle accuse di corruzione si è scaduti nel pettegolezzo che tra le altre cose lo voleva amante di un transessuale, in galera da tempo e altre amenità. A quel punto Teele non ha retto più, una mattina è entrato nel palazzo del Miami Herald, il più importante quotidiano locale, ha telefonato dalla hall a un giornalista raccontando la sua versione dei fatti, poi si è sparato un colpo in testa. Teele è morto e il giornalista ha perso il lavoro perché aveva registrato quell'improvvisata intervista dichiarazione senza averne chiesto l'autorizzazione.

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