POLITICA & SOCIETÀ

Alla ricerca del treno dei desideri

Reportage/1
DEL SETTE LUCIANO,

A ripensarci adesso, quando il peggio è passato, e prendere un treno è tornata ad essere una necessità di spostamento meno impellente, mi dico che in fondo poteva andare solo così. Se uno, in quattro mesi mal contati, da ottobre 2007 a fine febbraio 2008, percorre sui binari quasi dodicimila chilometri per presentare in Italia un lavoro fatto per il manifesto e intitolato «I viaggi perduti», allora viaggiare con le Ferrovie Italiane è stata scelta perfettamente coerente con il titolo del lavoro stesso.
Lungo quei dodicimila o quasi chilometri, ho perduto tantissimi viaggi: su Eurostar che partivano dalla stazione d'origine con inspiegabili ritardi, venivano cancellati, arrivavano due ore dopo da una città che distava due ore; su Intercity plus e non plus che a soste fuori programma abbinavano loculi-bagno sporchi già prima di partire; su Cisalpini con posti a sedere prenotati e divenuti fantasmi; su Regionali che, se ci capiti sopra anche solo tre volte, ti iscriveresti subito alle associazioni dei pendolari, partecipando alle loro lotte con granitica solidarietà.
E in mezzo a quei dodicimila chilometri o quasi, un mondo di stazioni dove paghi 1300 vecchie lire per entrare nelle pubbliche toilettes, sperperi se acquisti un panino e una birra, guardi i cartelloni degli orari aspettandoti sempre l'annuncio che il tuo treno è in ritardo, fai la fila davanti agli sportelli «Informazioni Clienti» per capire quale convoglio (termine un po' obsoleto, ma ci sta tutto) prendere in alternativa a quello che non parte più, vieni massacrato dall'audio degli schermi Lcd che, di binario in binario, trasmettono pubblicità senza sosta e sovente a un metro dalle tue orecchie. Questo e altro voglio raccontare, in quella che non si deve chiamare inchiesta, ma piuttosto diario di un'esperienza. Per effetto della quale, ogni volta che adesso, dopo, faccio il mio ingresso a Roma Termini, oppure a Milano e Bologna Centrale, a Torino Porta Nuova, guardo il muso affusolato di un Eurostar come si guarda la testa di un serpente. E se salgo su un Regionale sento risuonare nella testa i versi di una vecchia canzone di guerra, la prima, mondiale: «Non ti ricordi quel mese di aprile/quel lungo treno che andava al confine/ che trasportava migliaia degli alpini...».
Non sembri strano iniziare il mio racconto dal treno più breve preso nei quattro mesi: da Roma Ostiense all'aeroporto di Fiumicino. La data è 29 novembre 2007, le ore sono quelle di metà mattinata. Quanto è successo costituisce l'esempio più eloquente del nulla ferroviario in cui un passeggero può precipitare. Mentre guardo il cartellone nero con le lettere ruotanti bianche che non riescono a scrivere Fiumicino, e al posto della lettera O finale mettono un 5, un 6, un 8, compare l'annuncio del ritardo del Torino/Napoli: due ore che, nella verità dei fatti e in una manciata di minuti, diventano tre. Sulla pensilina del binario numero uno si presentano alcuni addetti. Indossano guanti di lattice modello «sbarco di clandestini», su un paio di tavoli di fortuna accumulano brioches confezionate (viene alla mente la famosa frase di Maria Antonietta alla vigilia della Rivoluzione francese) e bottigliette di acqua minerale. Il treno non arriva.
All'ora prevista, l'annuncio scandisce che bisogna aggiungere trenta minuti in più. Brioches e acque minerali aumentano, insieme ai timori degli addetti: «E mò chi li sente, quelli!?», che sarebbero i passeggeri. Il treno arriva, man mano che rallenta posso vedere decine di facce esauste dietro ai finestrini abbassati, immagino le condizioni delle toilettes, gli scompartimenti e i corridoi come campi profughi, la fame e la sete per via del bar a bordo che avrà di sicuro finito da tempo le sue scorte. Il treno si ferma, gli addetti corrono di fianco ai vagoni, trasportando brioches e acque minerali; alcune postazioni con la scritta «Assistenza clienti» fanno la loro comparsa, e dagli sguardi dei ferrovieri si capisce che vorrebbero tanto non essere lì. Quando l'altoparlante annuncia il mio treno per Fiumicino, un altro altoparlante ha già messo in guardia i malcapitati che da Torino devono raggiungere Napoli: il ritardo finale (ma sarà stato davvero così?) ammonta adesso a quattro ore e quaranta minuti.
Torniamo indietro. Per esempio al 9 ottobre 2007, data di presentazione dei «Viaggi Perduti» a Torino. Avverrà la sera, la presentazione, e allora decido che posso affrontare - verbo non usato a caso - il tragitto con un Intercity Plus: sette ore, partenza alle 11,05, arrivo alle 17,55***.
Il manifesto, comprensivo per tanta e tale scelta, mi mette in prima classe. Il mio scompartimento (immagino, però, anche gli altri) presenta le seguenti caratteristiche, tipiche di un trattamento ferroviario privilegiato: rivestimenti dei sedili in velluto che non conoscono pulizia da mesi e la cui seduta è cosparsa di pieghe causate dall'usura, poggiatesta in tessuto elastico, un tempo - remoto - tendente al bianco; tavolino di servizio che, una volta estratto dall'alloggiamento, si inclina al punto da non consentire, a treno in movimento, di appoggiare alcunché, libri e giornali compresi; aria condizionata che viaggia allegramente sul caldo tropicale. Intorno alle 13 si affaccia una punta di appetito e allora penso che, tutto sommato, un pasto alla carrozza ristorante, a spese mie, me lo posso pure concedere. Si mangia, e intanto si inganna il tempo. Arrivo alla carrozza, e la vista si spalanca su uno scenario di infinita tristezza.
Ma quale pasto, ma quale ristorante? Un lungo mancorrente delimita lo spazio dove occorre mettersi in fila, per poi scegliere, nelle vetrinette modello refettori da ex Unione Sovietica, precotti desolanti tipo lasagne al sugo e petti di tacchino con piselli, chiusi in vaschette avvolte dalla plastica; tramezzini farciti, di colori improbabili come il loro gusto; formaggi e salumi in confezioni industriali, accanto a pacchi di biscotti e salatini firmati dalle multinazionali della moderna alimentazione che porta tanti adolescenti all'obesità; fette di torta di una nonna che ripudieresti all'istante se mettesse in tavola un dolce di questo genere. Scelgo con prudenza. Per una busta di prosciutto (?) crudo, un pezzo di formaggio (?) che se anche ne prendi uno ne paghi due perché il prezzo prevede comunque la doppia razione, un trancio di torta della già ripudiata nonna, due fette di pane incellofanato e una bottiglia piccola di vino rosso, pago circa 18 euro. Il tutto viene deposto su un vassoio da un gentile (non suoni ironico) impiegato ristoratore, insieme al kit forchetta/coltello/tovagliolo sempre in plastica e sempre incellofanato. Consumo il mio pasto a un tavolo finto legno, cosparso di briciole e tracce di tondi di bottiglia. La Toscana scorre oltre il finestrino, mentre cerco vanamente di trasformare con l'immaginazione del palato l'emmenthal finto svizzero in pecorino della Val d'Orcia.
Roma/Bologna/Roma, seconda metà di ottobre. È nell'attesa di tornare a Roma che scopro le mille attrattive della stazione petroniana. Sarà il rumore della pioggia battente, ma appena nell'atrio avverto la necessità di raggiungere una toilette. Seguo le indicazioni, la necessità si fa sempre più impellente, entro e mi ritrovo di fronte a un Check Point Charlie: uno sbarramento impedisce l'accesso ai bagni. Le due ante di cristallo fumé si spalancheranno automaticamente solo immettendo nell'apposita macchinetta euro 0,70. Non ho spiccioli, corro a cercare soccorso da un giornalaio che, vedendo le mie movenze da danzatore, intuisce la richiesta. «Vuole cambiare per la toilette, non è vero? Sapesse quanti ne vengono!». Cambia i miei cinque euro in molti spiccioli. Il perché lo comprendo quando, ormai allo stremo, introduco nella fessura euro 0,70: la macchinetta non dà resto, quindi una modesta pipì può costarti euro uno. Un piccolo furto, considerate anche le condizioni in cui i bagni versano. Identico pedaggio dovrò versare in altre stazioni.
«Quando il sole tornerààààà, e nel sole tu verrai da meeeee!!!!». La voce di Al Bano, ogni trenta secondi, penetra dallo schermo pubblicitario a cristalli liquidi nella mente del viaggiatore: soltanto quella breve strofa, ripetuta fino all'ossessione, per pubblicizzare il servizio internet di una compagnia telefonica. E poi spot di auto, dolciumi, profumi, assicurazioni, deodoranti, regolatori intestinali, a costruire una colonna sonora di insopportabile cacofonia. Dicono le cifre che l'installazione dei maxischermi pubblicitari in 114 stazione italiane ha fruttato alle Ferrovie, nel 2007, oltre cinque milioni di euro. Mi allontano, entro nell'atrio principale per mettermi al riparo dal freddo. Ma serve a poco: dagli ingressi e dalle pensiline un vento gelido entra ed esce. Mi accendo una sigaretta. Subito spenta dal richiamo di un agente della Polfer: qui è vietato fumare. Troverò questo divieto recente e assurdo in ogni atrio ferroviario della penisola dove l'aria (più o meno inquinata) ha ogni agio di circolare. Si può fumare soltanto sulle pensiline e accanto a un posacenere infisso nel muro, guardando i binari lungo i quali giace abitualmente un buon quantitativo di spazzatura. E rassegnandoti a sopportare le urla pubblicitarie degli schermi Lcd.
(1/P. continua)

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