PRIMA

Lo stato (non bello) dell'arte politica

A sinistra
MARRAMAO GIACOMO,

Chiunque abbia frequentato il grande pensiero radicale della modernità - che, da Kant a Hegel, da Marx a Nietzsche, da Weber a Gramsci, non cessa di coinvolgerci e interrogarci - sa che è impossibile afferrare il cuore del presente senza sottrarlo al rumore dell'attualità. Per un paradosso connaturato alla condizione moderna, il senso del presente si dischiude solo a chi sia in grado di coglierne la piega «inattuale» per visualizzarlo come giuntura dinamica di passato e futuro, tensione trattenuta tra memoria e aspettativa, interludio sospeso tra un non-più e un non-ancora. E' un pathos della distanza che dobbiamo tenere ben vivo oggi, se vogliamo fornire una rappresentazione perspicua del presente della politica italiana e dello status della sinistra. SEGUE A PAGINA 2
Anche e in modo speciale in una temperie «attualizzante» per antonomasia come quella di una campagna elettorale.
Nello stilare queste rapide «considerazioni inattuali» farò esclusivo riferimento all'area della sinistra politica, tenendo sullo sfondo il ben più vasto arcipelago delle culture, dei saperi e delle pratiche (giovanili e no) che nel contenitore semantico della Sinistra variamente, e talora conflittualmente, si riconoscono. Se il gap tra sinistra politica e sinistra delle pratiche è venuto negli ultimi anni crescendo, ciò è dovuto non solo al coefficiente particolarmente alto di autoreferenzialità del sistema politico italiano, ma più in generale a una scollatura tra dimensione materiale e dimensione simbolica. Si parla spesso, e con valide ragioni, di deficit culturale della sinistra. Ma qui è bene cominciare a tracciare chiare linee di demarcazione: quel deficit può essere colmato solo se la sinistra si dimostrerà capace di rigenerarsi perseguendo una logica opposta a quella «identitaria». Lasciamo pure il mito dell'Identità alle destre di ogni latitudine e cerchiamo di impegnarci sul piano della teoria e dell'analisi per un effettivo rinnovamento dei concetti e della «scatola degli attrezzi». Oggi come ieri, come più volte nel corso del tragico e formidabile secolo che abbiamo alle spalle, la posta in gioco di una cultura del cambiamento non può essere affidata a un depositum fidei ma alla capacità di saldare - all'altezza del presente - il lato oggettivo delle leggi di movimento del modo di produzione capitalistico (divenuto ormai materialmente globale) con un lato soggettivo chiamato a fare i conti con una struttura del tempo storico irriducibilmente multipla e non-lineare, immersa nella dimensione della contingenza e della scelta. Vediamo bene, adesso, come le retoriche della modernità e dell'innovazione che hanno impregnato il lessico della politica dopo il 1989 dipendessero da una diagnosi errata della nuova scena del mondo. Diagnosi immemore del monito di un intellettuale liberaldemocratico come Norberto Bobbio che, all'indomani della caduta del muro di Berlino, aveva avvertito come dal crollo del «socialismo reale» sarebbe scaturito un mondo ancora più diviso, in cui i problemi della diseguaglianza e dell'ingiustizia - liberati dai dispositivi di neutralizzazione e di controllo del duumvirato Usa-Urss - avrebbero manifestato tutta la loro crudezza e la loro portata dirompente. Sappiamo com'è andata. L'espandersi onnipervasivo del mercato globale ha indotto, assieme a una progressiva «deculturalizzazione» e presunzione di autosufficienza delle élite politiche, un effetto narcotizzante su larghi strati della popolazione, il cui potenziale materiale e simbolico (bisogni e desideri) è stato incanalato nei circuiti di una iperrealtà dominata dallo spettacolo della merce-informazione. Nella sindrome postdemocratica che contrassegna l'attuale stato delle cose in Occidente, i giochi trasversali delle corporazioni e delle «caste» si svolgono dentro l'orizzonte di una politica necessitata, i cui vincoli esogeni sono determinati ex ante dalle nuove «potestà indirette», rappresentate dalle agenzie economico-finanziarie o religiose. Di qui l'inevitabile trend di eutanasia della politica in comitato d'affari e gestione di risorse per conto terzi che caratterizza, in grado maggiore o minore, tutti i governi delle nostre società. Per paradossale che possa apparire, la vera antipolitica non è costituita oggi dalle forme di protesta sociale o di iniziativa civica, ma proprio dalla politica politicante, dalla Politica istituzionalmente intesa. E tuttavia...
E tuttavia l'evidente difficoltà di traduzione politica di questi dati strutturali, di questo stato-delle-cose, può essere afferrata solo a partire dalla frattura che si è venuta a determinare tra «materiale» e «simbolico». Per suturarla, non basterà certo sintonizzarsi con «l'onda corta» dell'attualità, ma neppure con «l'onda media» del post-89 e della Seconda Repubblica. Occorrerà piuttosto riallacciarsi «all'onda lunga», risalendo al punto di svolta decisivo della nostra «contemporaneità»: il passaggio dagli anni '60 ai '70. E' lungo quel crinale che, in una fase di cambiamenti economici e politici sempre più accelerati e intensi, ha avuto luogo un vero e proprio sovvertimento simbolico dell'esperienza del tempo che (come ho tentato di mostrare nei miei lavori a partire dai primi anni '80) ha finito per condurre da un lato all'entropia della progettualità politica e alla crisi del futuro, dall'altro - grazie soprattutto al pensiero della differenza sessuale - al ritorno al presente e alla scoperta del significato politico del corpo. Il destino del «politico» è andato così incontro a una sempre più marcata biforcazione: da un lato la politica delle pratiche agite in proprio dai soggetti (a partire dalla nuova soggettività delle donne); dall'altro la politica istituzionale, sempre più ridotta a routine amministrativa e gestione indifferenziata della risorsa consenso. La sindrome del «futuro passato» che caratterizza, a partire dal tornante degli anni '70, la nostra epoca delle «passioni tristi» ha ribaltato l'avvenire da oggetto di speranza in fattore di minaccia. «L'euristica della paura», che in quegli anni ipotecava pesantemente l'ancor nobile appello di Hans Jonas al principio-responsabilità, è servita nel frattempo da alibi per una vera e propria demonizzazione del conflitto. Nella spinta alla «normalizzazione» che caratterizza le democrazie occidentali, dissenso civile e opposizione sociale appaiono ormai anomalie intollerabili. Ma rimuovendo il conflitto anche nelle sue forme più dure e antagonistiche, la democrazia viene inevitabilmente svuotata di quella linfa vitale che la rende capace di percepire i sintomi di crisi e di rispondervi positivamente nella direzione del cambiamento. Ha ragione Rossana Rossanda: l'odierno paradigma normalizzante è anni-luce distante dal grande progetto politico della modernità, che dal primo al secondo Ottantanove, dalla presa della Bastiglia alla caduta del Muro di Berlino, non si era mai diviso sulla necessità del cambiamento ma solo sulle sue modalità «gradualiste» o «rivoluzionarie». Specchio di questo svuotamento è - da noi più che altrove - lo schermo televisivo. La sfera pubblica, ridotta all'agorà fittizia della televisione, ci propone una parodia dei conflitti: una messinscena in cui ciascuno dei contendenti interpreta, secondo copione, un ruolo prestabilito. Ma è proprio questa omologazione spettacolare, espressione triviale e ipermoderna della fine della storia, a produrre come suo alter ego una proliferazione endemica della «parte maledetta», che si traduce in una generalizzazione indifferenziata della figura del Nemico. Nella postdemocrazia non vige uno stato d'eccezione reale, ma uno stato d'eccezione «formattato», creato ad arte per rendere indiscernibili i profili dei veri conflitti, delle effettive linee antagonistiche. Nella produzione costante di stati emergenziali fittizi, ogni dissenso viene trasformato in potenziale terroristico: in fattore che minaccia dall'esterno il corpo sano dell'organismo sociale e la flexcurity della «società bene-ordinata».
Inevitabile, in conclusione, la vecchia (ma oggi ancor più valida) domanda: Che fare? Ovvero: come organizzarsi e operare politicamente contro questo stato-di-cose? E ancora: è sufficiente criticare e operare contro, senza al tempo stesso pensare e progettare per? Molto opportunamente Rossana Rossanda ha riconosciuto a Walter Veltroni il merito non secondario di aver preso atto dell'insufficienza di una linea fondata sul «No». E sempre su queste colonne, con argomenti non molto dissimili, Mario Tronti ha sottolineato la capacità di iniziativa del Partito Democratico che, a differenza delle forze della Sinistra Arcobaleno, è riuscito indubbiamente - almeno per ora - a mettere in seria difficoltà Berlusconi facendo valere una logica di partito insieme unitaria ed efficace. Stendendo un velo pietoso sui criteri con cui sono state approntate le liste elettorali del Pd e della Sinistra, mi limito a notare che entrambe paiono ben lontane dal render conto delle ricchissime e multiformi esperienze di lavoro e di conoscenza, di saperi e di pratiche artistiche scientifiche tecniche, presenti tanto nella società italiana quanto nella vasta area democratica e di sinistra del nostro paese. Di fronte a queste realtà ancora non valorizzate dalla politica, occorre elaborare un progetto di ricomposizione, nella consapevolezza che il tempo della disseminazione è ormai esaurito e che la decostruzione, lungi dall'essere una pratica liberatoria, rischia ormai di trasformarsi in un'apologetica dell'esistente. Nell'epoca del confronto tra tecnica e corpo, ragioni della scienza e valori della vita, in cui temi un tempo impolitici si sono ribaltati in questioni cruciali di una Superpolitica, il futuro della sinistra in Italia e in Europa dipenderà dalla capacità di pensare a una ricomposizione del general intellect, dei talenti e delle potenze sociali, che non sia reductio ad Unum ma costruzione di una comunità relazionale e dinamica, tenuta insieme non dall'imperativo dell'identità ma dalla cifra della differenza. Ma, per far ciò, occorrerà intanto - guardando oltre l'attualità elettorale - disporsi a suturare la ferita tra «materiale» e «simbolico», da cui in ultima analisi dipende la difficoltà di tradurre in soggettività politica autonoma la diffusa insofferenza verso lo stato di cose esistente. Giacomo Marramao

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