CULTURA

Il fragile cosmopolitismo del vecchio continente

claus coffe
YPI LEA,

È scettico Claus Offe. Scettico sugli attuali benefici del processo d'integrazione europea, scettico sulle reali possibilità che l'Unione europea ha di costituire un blocco politico comune in grado di contrastare il dominio imperiale degli Stati Uniti su scala internazionale e scettico persino che la tesi della fine degli stati nazionali risulti persuasiva per quanto riguarda le capacità di mobilitazione dei partiti di sinistra ed il progetto di una sinistra alternativa europea. Ritiene che non sia possibile contrastare lo spirito neo-liberale delle istituzioni europee finché non si otterrà una piattaforma comune delle forze politiche di sinistra, con chiare rivendicazioni politiche. E propone il reddito minimo europeo come possibile punto di partenza. Lo abbiamo incontrato poco prima del suo discorso di ringraziamento per aver ricevuto una laurea d'onore alla Australian National University, dove è stato ospite negli ultimi mesi e dove ha portato avanti le ricerche per il suo ultimo libro sulla teoria del potere sociale.

Professor Claus Offe, perché questo scetticismo?
Perché l'Europa si allarga e nello stesso tempo si appiattisce. Il peso del libero mercato si fa avvertire sempre di più alle spese dei processi di democratizzazione. Questo sviluppo distorto è particolarmente evidente in due ambiti rispetto ai quali l'Unione europea stenta ad esprimersi con una voce unica: la politica estera e le politiche pubbliche. Per quanto riguarda la politica estera, tutto ciò che riguarda gli aiuti allo sviluppo e le politiche verso il Sud del mondo viene deciso dagli stati nazionali, seguendo logiche post-coloniali e a seconda degli interessi particolari dei paesi membri nelle ex-colonie. L'altro ambito dove l'Unione europea si rivela debole è quello delle politiche sociali, incluse le politiche fiscali e del mercato del lavoro.
In questo ambito, i principi fondativi dell'Unione non le permettono di interferire con la sovranità degli stati membri. Tutte le politiche che riguardano il mercato del lavoro, come la gestione della disoccupazione, la salute, l'immigrazione, l'assistenza sociale vengono lasciate agli stati nazionali. Questo è un paradosso perché molti problemi di questo genere sono diventati più urgenti e difficili da risolvere a livello nazionale proprio a causa del processo d'integrazione europeo. L'Europa provoca danni che poi lascia risolvere agli stati nazionali.
Il terzo problema è invece quello del deficit democratico e la mancata esistenza di un meccanismo che riesca a rendere trasparenti le tre istituzioni fondanti l'Unione europea: la Banca centrale, la Corte di giustizia e la Commissione. Ancora più grave è il fatto che l'Unione europea interferisce con la democrazia nazionale: la gran parte di quello che i legislatori sono tenuti a fare viene deciso a livello della Commissione portando al discredito istituzionale dei parlamenti nazionali.

Per molti studiosi, la costruzione a livello mondiale di un blocco politico alternativo agli Stati uniti avrebbe come effetto un miglioramento del processo di integrazione europea. Lei cosa ne pensa di questa tesi?
Uno degli effetti collaterali degli interventi militari in Afghanistan e in Iraq è stata la distruzione di ogni autorità morale e plausibilità di leadership a livello internazionale. Il conseguente vuoto politico richiede di essere colmato da una forza che eserciti un'egemonia positiva e sottolinei l'importanza di rispettare i diritti umani e l'ordinamento internazionale. Molti pensano che l'Unione europea potrebbe sostituire gli Stati Uniti in questo senso, appellandosi a un universalismo cosmopolita. Ma anche quando l'Unione europea riesce ad incidere negli affari internazionali lo fa sulla base di alleanze ad hoc tra gli stati membri, come per esempio nel caso della troika che guida i negoziati con l'Iran sulla questione nucleare. Si tratta di un caso estremo di geometria variabile e non di un'Europa che parla con una voce comune.
Alcuni sostenitori del processo dell'integrazione europea come Jürgen Habermas sono perciò giunti alla conclusione che sia importante rafforzare il ruolo degli stati membri più importanti e che una volta che questi avranno adottato una costituzione europea con mandato popolare gli altri si uniranno. Ma si tratta di una speculazione molto ottimista: l'argomento contrario è che se si formano alleanze tra stati membri come la Germania e la Francia agli altri mancherà la motivazione di aggiungersi e vorranno al contrario ostruire il processo per punire le presunzioni dirigiste di questi attori. La spinta degli stati meno importanti potrebbe perciò non essere quella di imitare il modello ma di opporvisi.
Abbiamo già assistito a uno scenario simile nel 2003 quando divenne chiaro che la Germania e la Francia non avrebbero sostenuto l'impresa bellica degli Stati Uniti in Iraq mentre la reazione di molti paesi dell'Est fu quella di ribadire il sostegno agli Usa. Anche le manifestazioni di protesta contro la guerra nel 2003 furono più un affare che coinvolse la sola Europa occidentale che un simbolo dell'affermazione dell'identità comune europea. Il problema è dunque che manca una sfera pubblica europea che trascenda i confini tra stati nazionali e sia in grado di confrontarsi con la Commissione europea in quanto tale.

Qual è, secondo lei, l'orifine di queste divisioni?
Una parte del problema è di origine storica. Quando gli «euforici» ci invitano ad osservare la storia dell'integrazione degli Stati Uniti, valorizzandone lo sviluppo in direzione federale, e di riflettere sulle analogie con l'Europa commettono un errore di valutazione. Si pensi per esempio alla situazione linguistica. L'Unione europea ha 23 lingue e questo non facilita affatto la creazione di una sfera pubblica unica. Quando Habermas risponde a questo argomento ricordando come l'inglese stia diventando di fatto la prima seconda lingua europea non si accorge che questo è solo vero a livello delle èlites ma non tocca quello che dovrebbe costituire il futuro popolo europeo. Un'altra parte del problema è che i membri dell'Unione europea hanno alle spalle una storia disastrosa di guerre tra loro. Questa storia non è stata dimenticata da parte delle popolazioni e la mancata fiducia che ne risulta porta stati piccoli e medi a voler mantenere una politica estera indipendente da quella dei loro vicini più potenti.
La terza ragione è istituzionale e ha a che fare con la vecchia controversia tra chi favorisce l'allargamento e chi favorisce l'approfondimento del processo d'integrazione. Molta politica estera della Gran Bretagna per esempio va nella direzione dell'allargamento ma alle spese dell'integrazione delle politiche sociali. E anche le discussioni sull'allargamento o la necessità di includere Ucraina e Turchia non tengono in considerazione una regione molto importante: quella dei Balcani occidentali. Gli stati deboli o falliti in questa regione sono tenuti a bada con la promessa dell'integrazione, ma abbiamo anche assistito alla nascita di due nuove entità politiche come il Montenegro e il Kosovo nella forma di quasi protettorati degli Stati Uniti, senza che l'Unione europea manifesti una qualche volontà politica autonoma.

Parliamo del ruolo della sinistra. Ritiene che sia in grado di porsi alla guida di un percorso d'integrazione alternativo e più vicino alle esigenze sociali dei popoli?
La sinistra in Europa è abituata a pensare secondo una logica «nazionale». La situazione è particolarmente complessa nel caso della sinistra britannica, che non ha mai considerato l'integrazione europea come una risorsa. Nell'Europa continentale, nonostante l'esito negativo dei referendum sulla costituzione europea in Francia e Olanda, la percezione dell'Ue come una forza che potrebbe servire scopi sociali è più diffusa. Il risultato di quei referendum dovrebbe essere interpretato come un voto non contro l'Europa ma contro determinate politiche dei governi nazionali. Ciò detto, è necessario rendersi conto che anche una sinistra come quella tedesca, per esempio, non sostiene in maniera inequivocabile il rafforzamento del ruolo dell'Unione europea.
La ragione è che l'Europa viene percepita sia come non-democratica che come una minaccia per la democrazia nazionale. Questo giudizio naturalmente ha dei limiti, ma le ambiguità ci sono. A partire dall'introduzione dell'euro i governi nazionali non hanno più a disposizione le risorse fiscali per contrastare determinate politiche economiche a cui i governi di sinistra un tempo facevano ricorso.
Ancora più serio è il fatto che non esiste una sinistra europea convincente, eccezion fatta per qualche coalizione ad hoc e qualche intellettuale che se ne fa portavoce. Non ci sono partiti politici a sinistra del centro, non ci sono sindacati europei di peso, non c'è neanche una sfera pubblica in cui esprimere rivendicazioni sull'Europa sociale. Manca un anello istituzionale importante e finché questa situazione non cambia il dialogo continuerà a svolgersi a livello personalistico e di èlites senza mai coinvolgere le discussioni sulle politiche nazionali. Nonostante qualche lodevole iniziativa per costituire una versione della sinistra Europea non è stato fatto alcun passo sostanziale nella direzione dei contenuti: nessuna agenda, nessuna proposizione programmatica. Si tratta più delle fasi iniziali di un percorso di ricerca che della vera e propria condivisione di una piattaforma politica.

Pensa che questa mancanza di un progetto europeo sia legata al convergere verso il centro della vecchia sinistra a livello nazionale?
Il mercato unico europeo e l'integrazione finanziaria hanno rafforzato l'egemonia delle dottrine del libero mercato e diffuso floride promesse sulla scomparsa della disoccupazione e l'aumento generale di benessere. L'esperienza dimostra invece che qualsiasi tentato progresso in materia di giustizia e protezione sociale a livello nazionale si ritorce contro chi tenta di attuarlo. L'integrazione europea è un meccanismo che punisce lo sviluppo sociale. I sindacati a Colonia sanno che se non moderano le loro rivendicazioni salariali perderanno posti di lavoro perché questi saranno dislocati a Liegi.
Un tempo i sindacati che coesistevano con istituzioni socialdemocratiche erano in grado di fare pressioni sui governi ed ottenevano qualcosa in cambio, che fossero pensionamenti anticipati oppure formazione occasionale. Ora la situazione è diversa, se non ci si comporta in modo moderato si viene puniti dal mercato e la mancata moderazione non viene apprezzata neanche dai governi. La maggioranza della popolazione europea si sente minacciata dal processo d'integrazione ed ha buoni motivi per esserlo. Aumenta il senso di insicurezza: sulla casa, il lavoro, la sanità, il futuro delle nuove generazioni. Occorre una forza politica che possa servire fini europei. Occorre una convergenza di piattaforme su scala europea. I datori di lavoro sono più organizzati in questa direzione.

Lei da dove propone di iniziare?
La questione della politica di classe in Europa deve essere in qualche modo rivisitata. Molte persone percepiscono la loro situazione non più come legata a una problematica di distribuzione del reddito tra capitale e lavoro o di differenza tra quelli che controllano le risorse e quelli che ne sono dipendenti. Il nuovo paradigma è invece sicurezza verso insicurezza. Questo significa che il conflitto sociale non nasce più dal lavoro salariato ma dalla precarietà. Colpisce il fatto che la destra politica sia stata in grado di comprendere la novità di questa questione dal punto di vista programmatico meglio della sinistra.
In effetti, la destra nazionalista di vari paesi, tra cui l'Austria, l'Olanda, la Polonia, o la Danimarca, è stata in grado di rivolgersi ai precari e di ottenere i voti di gruppi come i lavoratori temporanei, i piccoli imprenditori, le ragazze madri con una serie di parole chiave in grado di fare appello al loro senso di insicurezza: la fobia degli stranieri, le barriere doganali, i limiti dell'integrazione europea. La sinistra europea finora non è stata in grado di affrontare il discorso della precarietà con un discorso alternativo plausibile. È necessario che la sinistra riesca ad elaborare un programma per la promozione della sicurezza economica come diritto di cittadinanza a livello europeo. Se la sinistra alternativa e i verdi non riescono a convergere su una simile piattaforma per il reddito minimo e ad ottenere garanzie sociali di qualche genere c'è il rischio che i sostenitori del libero mercato formino una duratura alleanza elettorale con la destra protezionista radicale. La sinistra deve cioè far propria una concezione universalistica delle politiche sociali, legata però a un concetto di cittadinanza europea anziché nazionale. È dunque necessario lavorare di più su questo concetto del reddito minimo come diritto di cittadinanza inteso in senso europeo, il quale riesca ad affrontare il problema della precarietà come fenomeno di massa non limitato alla dimensione nazionale.

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