«Favorire l'istituzione nei Servizi psichiatrici di diagnosi e cura (Spdc) degli ospedali pubblici, di almeno un servizio di elettroshock per ogni milione di abitanti»: questa la richiesta indirizzata al ministero della salute da parte dell'Associazione italiana per le terapie elettroconvulsivanti (Aitec) che cerca, in questi giorni, la firma della Società italiana di psicopatologia che tiene a Roma il suo XII Congresso. La petizione lamenta che in Italia il servizio sanitario nazionale fornisce questa prestazione solo in sei Spdc e in tre cliniche convenzionate, lasciando immaginare strutture oberate di lavoro per evadere una domanda che dovrebbe essere enorme, se si richiede l'istituzione di una quarantina di centri pubblici. Ma l'Aitec non fornisce alcun dato sulle persone che in Italia richiedono l'elettroshock, e non hanno avuto la curiosità di cercarlo neppure i giornali che in questi giorni hanno diffuso, con toni per lo più critici, la petizione degli psichiatri e il loro lamento sull'ostracismo di cui sarebbero vittime. Qualche cifra è invece assai utile per capire il significato e il peso di questa proposta.
Il più importante tra i centri italiani che praticano l'elettroshock è la Clinica psichiatrica dell'Università di Pisa diretta da Giovanni Battista Cassano. Stando ai dati dell'Osservatorio regionale, negli ultimi anni la clinica ha effettuato cicli di elettroshock su un centinaio di persone all'anno, con una evidente tendenza al decremento - da 170 persone nel 2001 a 86 nel 2006 - e una costante: circa un terzo delle persone provengono dalla Toscana. Difficile credere che questi dati siano l'evidenza di un ostracismo contro l'università di Pisa: Cassano gode di prestigio scientifico e popolarità mediatica e ha una forte egemonia culturale nella psichiatria della sua regione, la cui normativa in questo campo è tutt'altro che repressiva. La Toscana vieta infatti l'uso dell'elettroshock solo sui minori e sugli ultrasessantacinquenni, limitandosi a monitorare il suo uso e a prescrivere procedure per il consenso informato dei pazienti. Cosa significa allora il fatto che si facciano così pochi elettroshock nel centro che vanta il maggior credito internazionale? Significa, innanzi tutto, che l'équipe di Pisa applica correttamente l'elettroshock solo su quella ristretta nicchia di situazioni patologiche sulle quali questa tecnica è ritenuta efficace da coloro che la sostengono (in questo caso, però, davvero non si capisce perché chiedere che venga quadruplicato il numero dei centri pubblici per l'elettroshock). C'è poi un secondo elemento influente, il processo di riforma della psichiatria avviato in Italia oltre quarant'anni fa, che ha prodotto nei servizi pubblici, pur tra limiti enormi, un'offerta ampia di tecniche terapeutiche, e ha tolto di mezzo quell'ospedale psichiatrico che per mezzo secolo è stato sede di sperimentazione e applicazione massiva dell'elettroshock. La petizione dell'Aitec è in questo senso illuminante. Vengono infatti citati come buoni esempi paesi europei che hanno, insieme, un gran numero di centri di elettroshock e di ospedali psichiatrici: dall'Ungheria alla Finlandia, dove esistono solo ospedali psichiatrici, alla Germania e Inghilterra, dove i servizi comunitari sono sempre più impoveriti nelle risorse dalla prevalenza della psichiatria manicomiale.
Questo è il punto centrale, il legame profondo tra elettroshock e cultura manicomiale. Se occorressero prove ulteriori di tale connessione e dei danni che possono derivarne, queste vengono da un fatto di questi giorni. Il 18 febbraio sono stati rinviati a giudizio il direttore e una psichiatra del Spdc di Cagliari per la morte per embolia di un uomo di cinquant'anni, che l'anno scorso era rimasto legato al letto, senza interruzione, per un' intera settimana. Quel reparto è uno dei nove centri in cui si pratica l'elettroshock, e la psichiatra imputata fa riferimento, come altri suoi colleghi di reparto, al Centro Bini di Roma, fondato e diretto da Athanasios Koukopoulos, che è il promotore della petizione citata all'inizio.
Due conclusioni allora. La prima: per ora, almeno in Italia, i dati sul suo uso dimostrano che l'elettroshock è una tigre di carta. Si rischia di attribuirgli un peso che non ha, se si accetta di dar fiato al dibattito ideologico con cui l'Aitec cerca di uscire dall'angolo in cui si trova confinata. Ma il fatto di Cagliari obbliga a un'altra riflessione. Pratiche come la contenzione fisica, le porte chiuse, l'uso degli psicofarmaci come camicia di forza chimica, con danni biologici e culturali non minori di quelli dell'elettroshock, fanno parte dell'armamentario sedicente terapeutico di molti psichiatri e servizi che non difendono né usano l'elettroshock, e che magari si apprestano a celebrare, il prossimo 13 maggio, il trentennale di una legge di riforma di cui smentiscono quotidianamente lo spirito e la lettera. Di questo, e non dell'elettroshock conviene parlare, domandandosi come mai sia così lento, sporadico e precario il processo di trasformazione della psichiatria che pure in Italia ha messo radici più che altrove e ha mostrato i suoi esiti positivi, tra i quali il basso ricorso all'elettroshock. Conviene interrogarsi sulle azioni e le omissioni del variegato mondo degli psichiatri e sulle responsabilità della politica, a livello regionale e nazionale. In questi giorni la ministra della salute Turco si appresta a consegnare alle regioni le «linee strategiche per la salute mentale», uno sconfortante documento di quaranta pagine, fitto di indicazioni amministrative che le regioni hanno il potere di ignorare e del tutto privo di accenni sulle priorità, sui punti dolenti dei servizi e sulla qualità delle prestazioni, ambiti che invece sono i soli su cui il ministero potrebbe agire con una qualche speranza di efficacia. Anche su questo governo senza qualità converrà ritornare, nei prossimi inevitabili dibattiti sul trentennale della «180».