CULTURA

Gli alterni destini degli emigranti approdati sulle rive del Bosforo

FRANZINA EMILIO,

Pochi luoghi come Istanbul hanno costituito per generazioni di visitatori europei il termine di paragone per saggiare il fascino dell'Oriente (sultani e serragli, eunuchi e concubine, bazar e moschee...) prima che il sostanziale annullamento delle distanze e la pratica dei voli low cost ne facessero una meta sempre più comune del moderno turismo di massa. Anche così, ad ogni modo, la città non tradisce né delude le aspettative persino degli ultimi e più anonimi eredi di una grande tradizione di viaggio.
Pur senza scomodare le memorie dell'infatuazione «turchesca» serpeggiante in Europa fra Sette e Ottocento e le evocazioni letterarie dell'antica Costantinopoli divenuta capitale dell'impero ottomano, la visione delle sue torri e dei suoi palazzi basta e avanza, da duecento anni in qua, a soddisfare l'ansia di esotismo dei più diversi pellegrini che approdino sulle «dorate» rive del Bosforo. Chi abbia la possibilità di sovrapporre a una tale visione l'eco di ascolti musicali appropriati o il ricordo di colte letture (del Casti e di Loti, di Edmondo De Amicis e di Remigio Zena), potrà arricchire il bagaglio delle sue sensazioni di sfumature gradevolissime e di elementi sparsi di conoscenza che arrivano a sfiorare, alle volte, qualche nozione sulla vaga italianità di Galata e Pera.
Dai dragomanni agli ingegneri
È una storia di genovesi e veneziani che si prolunga da secoli nel cuore antico di Istanbul, infatti, quella che lega il sentore della presenza italiana sottoposta nel tempo a una infinità di inevitabili cambiamenti. Storia di fondaci e commerci, per non parlare di remote imprese militari al tempo delle Crociate e di piccoli ma significativi insediamenti «latini» che assunsero nuove fattezze nel corso dell'Ottocento quando intorno al 1839, grazie all'editto di Gülhane sulla tolleranza religiosa, ebbe inizio in Turchia, ben prima dell'avvento di Kemal Atatürk, la stagione riformista delle Tanzimat con l'avvio di una progressiva occidentalizzazione di alcuni usi e costumi in un impero considerato quanto al resto musulmano per antonomasia.
Chi fossero gli italiani di Istanbul negli anni settanta dell'Ottocento, ormai dunque allo scadere di quella stagione che (in maniera sempre più diversa da un passato fatto per lo più di mercanti e dragomanni, di liberti e istruttori) aveva visto affermarsi tecnici e ingegneri, architetti e musicisti, professionisti e insegnanti originari della penisola, potrebbe non stupire: emigranti e figli di emigranti (o di esuli liberali della prima metà del secolo).
De Amicis, che molti ne incontrò nel 1875, e che trovò un piccolo posto anche per loro in uno dei suoi migliori resoconti giornalistici (riproposto di recente a cura di Luca Scarlini con una introduzione di Umberto Eco: Costantinopoli, Einaudi 2007), ne aveva ricavato, a dir la verità, una impressione alquanto modesta. Troppo stonavano nell'insieme, con l'atmosfera tutto sommato ancora solenne di un ambiente sulla via sì del declino, ma pur sempre carico di peculiarità tutte fuori dell'ordinario: «La colonia italiana - scriveva De Amicis - è una delle più numerose... ma non delle più prospere. Ha pochi ricchi, molti miserabili, specialmente operai dell'Italia meridionale che non trovan lavoro, ed è la più meschinamente rappresentata dalla stampa periodica, quando pure è rappresentata, perché i suoi giornali non fanno che nascere e morire».
Niente di paragonabile, insomma, alle vivaci enclaves liguri e alle imponenti collettività immigratorie del Sudamerica di cui avrebbe fatto conoscenza lui stesso dieci anni più tardi e nemmeno qualcosa che assomigliasse ai luoghi in cui già in quegli anni, dall'Europa al resto del Levante, si stavano addensando in gran numero gli emigrati italiani in veste di operai, braccianti, manovali nell'edilizia civile e nei lavori di ferrovia. Trattenendo a stento un senso di pietà per i propri connazionali più malmessi e incrociati lungo le vie di Pera e di Galata dove ancora un po' di italiano lo capivano e lo parlavano «quasi tutti, compresi i turchi» (benché apparisse chiaro il predominio di altre lingue veicolari, a cominciare dal francese) e dove nondimeno la «parlata italiana» in uso fra i residenti ormai di terza o quarta generazione era di quelle che se l'avesse sentita un nostro accademico della Crusca si sarebbe messo «a letto con la terzana», De Amicis coglieva tuttavia solo un aspetto della questione che ultimamente è tornata ad attirare l'interesse degli studiosi anche sull'onda del successo arriso all'opera letteraria di Orhan Pamuk e a quella cinematografica del regista Ferzan Özpetek, che nei suoi film (Il bagno turco, Harem Suare) agli italiani di Istanbul ha riservato una discreta attenzione.
Un quadro articolato
Nel giro di due anni scarsi, su iniziativa in particolare dell'Istituto Italiano di Cultura di Istanbul, questa attenzione si è come ampliata, traducendosi in incontri di studio, e consegnandosi felicemente alle pagine di libri di autori singoli o collettivi. All'opera di esordio di Alessandro Pannuti (La comunità italiana di Istanbul nel XX secolo: ambiente e persone, 2006) si è affiancato così adesso il volume a cura di Attilio De Gasperis e Roberta Terrazza, Italiani di Istanbul: figure, comunità e istituzioni dalle Riforme alla repubblica, 1839-1923, pubblicato dalla Fondazione Agnelli di Torino come coedizione del Centro Altritalie e dell'Istituto Italiano di Cultura appunto di Istanbul (pp. XII-435, euro 36).
Dai contributi che sottopongono a esame, qui, la comunità italiana e le istituzioni a cui diede forma, la vita quotidiana e le sue rappresentazioni, i viaggiatori e gli orientalisti, i musicisti e gli esuli politici, ma anche più classicamente i rapporti statuali italo-turchi nell'Ottocento e ancora nei primi anni venti del secolo XX, scaturisce un quadro molto più articolato e suggestivo di quanto non lasciassero presagire, al di là dei geniali ritratti paesaggistici e dei felici tocchi di colore, le sbrigative annotazioni di De Amicis. Autori italiani e turchi si avvicendano in un paziente lavoro di ricostruzione che se non è (né avrebbe potuto essere) esaustivo, mette in chiaro tuttavia il ruolo attivo e le trasformazioni identitarie degli italiani in Turchia e nella capitale dove, complici i mutamenti di fine Ottocento, si vedono nascere e rafforzarsi - sul tronco dell'impegno politico e filantropico dei maggiorenti borghesi - sodalizi mutualistici e circoli associativi non dissimili da quelli che la predicazione mazziniana e la diffusione della massoneria avevano già reso familiari in molte parti del mondo raggiunto dalla nostra emigrazione popolare.
I numeri qui sono senz'altro inferiori rispetto a quelli fatti registrare altrove, anche nei domini vecchi e nuovi del Sultano da Smirne ad Alessandria d'Egitto, in un Levante, cioè, a lungo trascurato dalla storiografia sulle migrazioni, come segnala nel suo articolo su Amy Allemand Bernardy e il nazionalismo Maddalena Tirabassi. Ma la ratio (e la storia «di lungo periodo») è la stessa come dimostra ad esempio Roberta Terrazza tracciando un profilo della Società Operaia Italiana di Mutuo Soccorso di Costantinopoli fra il 1863 e il 1913, ormai distante dalle preoccupazioni religiose e confessionali di associazioni quali la «Commerciale Artigiana di Pietà» e nata si può dire a un parto con la Loggia Massonica «Italia», incoraggiata al suo sorgere dalle stesse autorità diplomatiche e consolari del Regno. Logge e società di mutuo soccorso sono anche la proiezione in campo associativo di una comunità di minoranza caratterizzata tuttavia da fervori di operosità e illustrata da personaggi di primo piano bene inseriti nella società e negli apparati pubblici dell'Impero.
Sulle note di Donizetti pascià
Ricchi nella maggior parte dei casi di trascorsi politici rivoluzionari e giunti a Istanbul nella prima metà dell'Ottocento, uomini come i fratelli Gaspare e Giuseppe Fossati, architetti e imprenditori edili o come l'ingegnere Luigi Storari, il carbonaro ferrarese incaricato nel 1855 dal Sultano di disegnare una nuova pianta della capitale, si possono collocare accanto ad artisti e direttori d'orchestra come Giuseppe Donizetti, o Donizetti pascià, fratello del più celebre Gaetano, che per decenni resse le sorti della «musica» militare a corte e nel paese (e al quale successe nel ruolo e nelle funzioni un altro italiano, Callisto Guatelli), a urbanisti di fama come Raimondo D'Aronco e via via, come al solito, ai numerosi e meno conosciuti capimastri, piccoli commercianti, musicisti e cantanti, di cui danno conto, nel libro, Ilber Ortayli e Arus Yumul , Giuseppe La Salvia e e Oguz Karakartal.
Garibaldi in Turchia
Quanto la situazione a Costantinopoli e non solo nella «Magnifica Comunità di Pera» fosse in movimento già sull'aprirsi del secolo XIX è ben testimoniato dall'esperienza mal conosciuta che vi fece nel corso degli anni venti un giovane Giuseppe Garibaldi ignaro allora di dover diventare un giorno, nel 1863, primo presidente della Società Operaia di Istanbul. Nell'anno del bicentenario del generale non poteva mancare qualcosa sui suoi anni «turchi», che infatti si materializza in due saggi firmati dalle pronipoti Annita Garibaldi Jallet e Anita Garibaldi Hibbert, diversi anche se ruotanti attorno agli stessi temi, e dai quali si apprendono molte notizie sul contesto che vide in azione, nella permanenza più misteriosa e prolungata a Istanbul del loro antenato (dal 1828 al 1831), vari connazionali in grado con ogni probabilità di aiutarlo e dargli conforto a cominciare dalla concittadina nizzarda Luigia Sauvaigo e da quel Gian Timoteo Calosso (Rüstem Bey) che fu uno degli uomini più ascoltati dall'illuminato sultano Mahamud II.
Alla modernizzazione della Turchia e della sua capitale gli italiani offrirono un proprio contributo che nell'età nazionalista di Kemal Atatürk diventò giocoforza sminuire, forse anche perché, ma di questo purtroppo nel libro si accenna solo di sfuggita in qualche raro passaggio, le relazioni internazionali fra i due paesi subirono, nel 1911, quel trauma non indifferente, e che non sappiamo bene come a Istanbul venne vissuto sui due versanti della società civile, rappresentato dalla guerra italo-turca per Tripoli (bel suol d'amore), con gesta marinare varie sui Dardanelli e il rinfocolarsi, in Italia, di anacronistiche parole d'ordine levantine. Ma di questo, si spera (e si teme) ci sarà modo di riparlare.

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