Mentre i giornali si concentrano sul duello di personalità, sarebbe bene guardare a cosa rappresentano socialmente Hillary e Obama, che parlano a due segmenti diversi dell'elettorato democratico. C'è, ovviamente, la componente etnica: più si va avanti con la campagna elettorale, più il sostegno della comunità afroamericana va al primo, mentre le donne bianche continuano a sostenere con coerenza Hillary.
Purtroppo, c'è anche una divisione più complessa: i due candidati «parlano» a due segmenti diversi dell'elettorato democratico, uno più «professionale-progressista-alto reddito» (che vota Obama) e uno «femminile-moderato-conservatore» che vota Hillary. Per la prima volta da molto tempo, queste due subcoalizioni si cristallizzano durante le primarie attorno a candidati all'incirca della stessa forza, e ciò comporta seri rischi di rottura nel partito e nell'elettorato. Una candidatura Hillary farebbe ricadere gran parte dell'entusiasmo giovanile mobilitato per Obama, ma una candidatura di quest'ultimo darebbe all'elettorato operaio e alle donne a basso reddito la sensazione, ancora una volta, di non trovare una rappresentanza politica adeguata nel partito.
In realtà, è dal 1968 che gli operai americani non si sentono più «a casa loro» nel partito. In 40 anni, solo Bill Clinton nel 1992 ha dato l'impressione di saper parlare una lingua che i maschi bianchi a basso reddito potessero capire e apprezzare. Non è quindi un caso se oggi una larga maggioranza dei democratici sotto i 40.000 dollari annui lordi, 1.500 euro al mese netti, sostiene Hillary: è il 55%, contro il 35% di Obama e questa percentuale tende a restare stabile. Nella corsa per la presidenza, il vero asso nella manica di Hillary non è il marito Bill, o il sostegno dell'apparato ma la fedeltà che le dimostrano gli americani meno fortunati, come si può verificare nell'ultimo sondaggio del Pew Research Center (http://peoplepress.org/reports/display.php3?ReportID=392).
Il settore più progressista del partito ha una base sociale diversa: i professionisti, gli studenti, gli intellettuali. Un pezzo importante ma politicamente sovrarappresentato: solo nei salotti dell'Upper West Side di New York si poteva pensare che un candidato miliardario, del Massachusetts e con una moglie straniera come John Kerry potesse vincere le elezioni del 2004 (l'ultimo candidato dello stato di New York a vincere un'elezione presidenziale fu Franklin Roosevelt nel 1944 e l'ultimo del Massachusetts John Kennedy, nel 1960). Oggi, i giovani e gli intellettuali sono tutti per Obama, che almeno viene da Chicago e rappresenta una faccia nuova. Il fenomeno di un candidato imposto all'apparato del partito dall'entusiasmo giovanile nelle primarie si è già verificato con George McGovern, nel 1972, che tuttavia prese 18 milioni di voti meno di Richard Nixon, fermandosi al 37,5% contro il 60% dei repubblicani.
Oltre che elettori diversi, Hillary e Obama rappresentano anche due strategie elettorali differenti: i clintoniani partono dalla constatazione che l'America è politicamente molto polarizzata e geograficamente divisa in due, con le coste e le città che votano democratico, il Sud, l'Ovest e le campagne che votano repubblicano. Per loro, occorre concentrare gli sforzi sui pochi stati incerti (mezza dozzina) perché il meccanismo del collegio elettorale permette di vincere anche avendo gli stessi voti, o meno voti, dell'avversario. Kerry, che raccolse su scala nazionale 3 milioni di voti meno di George Bush, rischiò di vincere per l'incertezza del risultato in Ohio: se avesse avuto appena 120.000 voti in più lì (su oltre 5,5 milioni) sarebbe diventato presidente.
Il ragionamento di Hillary e dei suoi collaboratori è quindi che non ha nessuna importanza se i tradizionali elettori repubblicani della «cintura della Bibbia» vanno a votare in massa contro di lei: l'importante è rassicurare l'elettorato democratico tradizionale e conquistare alcuni gruppi importanti negli swing States, come gli ispanici. Per esempio, se il candidato del partito riuscisse quest'anno a tenere tutti gli Stati conquistati da Kerry quattro anni fa e ad aggiungervi New Mexico, Colorado e Iowa potrebbe entrare alla Casa Bianca, sia pure con una maggioranza risicatissima.
I collaboratori di Obama partono da un'idea diversa, ispirata da Howard Dean, che nel 2004 rappresentò il candidato dei giovani e della sinistra del partito. L'idea è che non si deve rinunciare a nessuno Stato, a nessuna contea, perché i democratici possono vincere ovunque, se hanno dei candidati capaci di parlare anche agli elettori indipendenti, o addirittura ai repubblicani. Dean, ora energico presidente del Comitato Nazionale Democratico, ha quindi sostenuto una strategia «50 States», cioè un tentativo di entrare anche nelle roccaforti repubblicane del Sud e dell'Ovest.
Obama è il candidato di questa strategia, parla un linguaggio diverso, più vago di Hillary, si presenta come «uomo nuovo» e non esita a riconoscere i «meriti» di Reagan. Agli elettori indipendenti piace più della Clinton ma non è detto che piaccia «negli Stati giusti», che sono poi quelli con un forte elettorato ispanico (che preferisce Hillary). I sondaggi che oggi danno Obama in vantaggio su McCain non contano nulla: non solo la campagna vera e propria inizierà solo in estate, ma si sa che alla fine i candidati di colore perdono sempre alcuni punti rispetto alle previsioni. quindi Obama dovrebbe essere accreditato almeno del 53% per avere, nella realtà, il 50,1.
Può darsi che Obama porti al voto molti giovani che altrimenti non voterebbero ma, di nuovo,i termini del problema non sembrano essere chiari ai suoi sostenitori: la classe di età 18-29 anni costituisce solo il 15% dell'elettorato, quella sopra i 60 anni il 30%.
Per vincere a novembre i voti degli universitari del Connecticut e del Massachusetts non servono, occorrono i voti dei ventenni del West Virginia, dell'Ohio, del Wisconsin, dell'Iowa, oltre a quelli dei pensionati della Florida e del New Mexico.