VISIONI

Patti Smith, parole di pace

«Dream of life» di Steven Sebring, biopic della poetessa del rock
CATACCHIO ANTONELLO,Berlino

Ha ragione chi definisce favolosi gli anni sessanta. Perché il riferimento non è al decennio bensì a quelli che oggi sono sulla sessantina. Almeno a voler giudicare dal punto di vista della Berlinale. Dopo l'energia dirompente dei Rolling Stones, dopo il non riconciliato Neil Young, che traccia un parallelo musical politico tra Vietnam e Iraq ecco infatti il biopic di Steven Sebring Patti Smith: Dream of Life. Un gioiello con una Patti davvero mai vista. Poca musica, molte riflessioni e tanta poesia, unita a una forza trascinante come paladina di cause giuste, la pace su tutte. Sebring conosce Patti nel 1995, quando lei torna a fare concerti dopo una pausa di sedici anni e dopo essere rimasta vedova. Lui deve solo fare un servizio fotografico, ma è folgorato dalla personalità di lei, comincia a filmarla, poi diventano amici, si fa strada l'idea di un biopic, inconsueto, come un lavoro che dura undici anni. E scorrono immagini e emozioni private, i genitori, i due figli, le amicizie sempre accompagnate dalla voce di Patti che trasforma quel che dice in poesia. Sullo sfondo si affacciano Rimbaud e Ginsberg, Picasso e Pollock, l'amico Mapplethorpe e Philip Glass al piano, le tombe di Shelley e Gregory Corso, Bob Dylan che l'ha fatta tornare e Sam Shepard che l'ha fatta esordire e tanta malinconia, non senza qualche canzone, non solo in concerto, anche strimpellata a casa con la chitarra come avviene per Amore che vieni amore che vai di De André. E alla fine non ci si può non innamorare di quella donna, segnata dai lutti e dalla vita, eppure radiosa nel suo saper suscitare emozioni anche quando racconta aneddoti apparentemente sciocchi come quello in cui ricorda di avere fatto pipì in una bottiglia in aereo. La ragazzaccia punk continua a sputare (come faceva al Cbgb di New York) ora però non è trasgressione è magnifica foga interpretativa di chi vuole raccontare e ragionare sulla vita (la morte) e il suo senso miscelando parole, musica, pittura, fotografia e tutto quanto possa tornare utile.
In concorso dalla Finlandia Musta Jää (ghiaccio nero) di Petri Kotwica vicenda di tradimento e gelosia su scenari nordici, con una ginecologa che scopre l'infedeltà del marito e si insinua nella vita della giovane amante di lui. Forse per differenziarsi da Kaurismäki, nonostante la protagonista sia Outi Mäenpää, attrice nei film di Aki, qui si parla molto, si mente, si esagera e si cerca di fare spettacolo con strizzatine d'occhio sempliciotte.
Sempre in competizione, il figlio d'arte Damian Harris con Gardens of the Night. Brutta storia, quella di una bimba rapita con l'inganno e convinta dal suo rapitore che i genitori non la vogliono più, poi utilizzata per la produzione di materiali pedofili e anche venduta come oggetto sessuale. Sorte analoga a quella del fratellino d'elezione afroamericano. La ritroviamo poi quindicenne, libera ma ancora ingabbiata, sempre in compagnia del fratello che ora però si è innamorato di lei. Storia odiosa e risultato modesto.

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