SPORT

Raciti e i morti del calcio tra emergenza e misteri

Ultimo stadio
PIERANNI SIMONE,


27 gennaio 2007, muore Ermanno Licursi. 2 febbraio 2007, Filippo Raciti. 11 novembre 2007, Gabriele Sandri. Un dirigente ucciso per una rissa in campo, un poliziotto negli scontri fuori dallo stadio, un ragazzo in autogrill mentre andava alla partita. Morti di calcio, 3 negli ultimi 12 mesi, 19 negli ultimi 30 anni. E' la storia di una emergenza che ritorna sempre. In Italia la shock economy trova da tempo linfa ed energie: anche gli ultras sono diventati «emergenza» e anche su di loro si attuano leggi, provvedimenti, regolamenti e atteggiamenti, speciali. In più, in Italia, da sempre il calcio costituisce un laboratorio sperimentale per le tecniche di controllo e repressione: compartecipazione psichica, arresti in flagranza differita e a breve il controllo dei cittadini attuato dagli stessi cittadini (steward). Politiche di controllo sociale avanguardiste e anche business, naturalmente: la sicurezza è un'industria già fiorente di suo. Sommata ai diritti tv e ai soldi che girano nel mondo del calcio, non c'è da stupirsi: né dei morti, né dell'incapacità, o mancanza di volontà, di affrontare il problema nella sua generalità. I media celebrano, ricordano, sviolinano retoriche, musichette di circostanza, ritratti tanto penosi quanto banali: poi, nei fatti, siamo ancora in attesa di capire come sia veramente morto Filippo Raciti, così come di sapere quali saranno i fantascientifici verdetti dei periti riguardo la morte di Gabriele Sandri. A Catania, le versioni si sono moltiplicate: prima una bomba carta contro l'ispettore, poi una lastra di metallo, infine una portellata di un'auto della polizia. Poi tutto è sparito, non fa più notizia. Non c'è neanche un'intercettazione telefonica di mezzo, sai che palle.
Il presunto colpevole, l'ultras Antonio Speziale (18 anni), si è già fatto 5 mesi di prigione e ora è agli arresti domiciliari in comunità. A Raciti hanno dedicato una statua, inaugurata ieri allo stadio Massimino. Ad Arezzo invece le carte stabiliranno se qualche liquido, sostanza, materiale, abbia deviato o meno un proiettile. Come se contasse qualcosa, come se il dato più inquietante non fosse che un uomo, da duecento metri, ha mirato ad un altro uomo. Un destino tragico, unito ad un'ansia di sapere come andrà a finire, quando a morire è un ragazzo, che è anche un tifoso. Anche in questo caso, sono pochi a ricordare l'avanzamento delle indagini, a segnalare gli elementi discordanti, a motivare i ritardi nelle comunicazioni. Per il resto, la gente ha voglia di stare serena. Per questo ama il calcio. Per questo lo guarda da casa.
In un anno un salto quantico è stato compiuto: per la prima volta sono state vietate trasferte a tifoserie organizzate, vietato l'accesso a zone specifiche dello stadio, chiuse intere curve, decimato il movimento ultras tra diffide e daspo. Eppure, ogni domenica, sugli spalti, il pubblico è sempre di meno. Secondo il parere di alcuni funzionari, impegnati a garantire la sicurezza, si tratta di un momento passeggero: prima o poi la cinghia si allenterà e tutto ritornerà come prima. Dato stridente con i consueti rapporti allarmistici dei vari osservatori nazionali. Secondo altri, invece, la gente si abitua a tutto: anche ad andare allo stadio come va al supermercato. Isolato, ritagliato nello spazio che va da sé alla propria ombra, privo di relazioni perfino con il proprio vicino di posto, o di fila. Gli ultras, bisogna pur dirlo, hanno perso ogni alleato e ogni aggancio con ciò che è reale: arroccati in un concetto di mentalità vecchio quanto il calcio che fu, incapaci di sciogliere nodi storici (basti pensare ai cori dei milanisti «uno di meno» all'indirizzo dei genoani domenica scorsa a San Siro, in ricordo di Vincenzo Spagnolo), poco propensi a sganciarsi dall'ottusa difesa di qualcosa che non c'è più, da tempo.

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