LA PAGINA 3

L'infelice storia degli «outsider» repubblicani

TONELLO FABRIZIO,

Almeno dal 1952 in poi, periodicamente, gli elettori repubblicani scoprono il loro «volto nuovo», il politico «diverso dagli altri», il leader che andrà alla Casa Bianca per riformare il sistema che non funziona: nel 1964 di questo sentimento beneficiò Barry Goldwater, nel 1976 e nel 1980 Ronald Reagan, nel 1992 Pat Buchanan e Ross Perot, nel 2000 John McCain. In nove casi su dieci, però, l'apparato del partito ha già selezionato il «suo» candidato e, alla fine, la nomination va alle vecchie volpi di Washington, non agli outsider.
Così avvenne nel 1952, quando i boss preferirono un candidato imbattitibile, il generale Eisenhower, al vincitore di 12 primarie, il popolare Estes Kefauver.
Nel 1964, una serie di coincidenze politiche mise fuori gioco Rockefeller e il candidato repubblicano fu Barry Goldwater (che comunque godeva di importanti sostegni nel partito).
Nel 1976, Reagan cercò invano di scalzare il presidente uscente Gerald Ford, che fu sconfitto, aprendo la strada alla candidatura dell'ex attore (ma anche governatore della California) per il 1980. Finita l'era Reagan, la mediocre presidenza Bush fece emergere prima il giornalista Pat Buchanan (che vinse proprio le primarie del New Hampshire nel 1992) e poi, emarginato quest'ultimo, il miliardario Ross Perot, che si presentò come indipendente, sfiorando il 20% dei voti. Infine, nel 2000, fu McCain a vincere le primarie del New Hampshire ma l'apparato aveva deciso che la nomination doveva andare a Bush figlio, che aveva migliori probabilità di successo ed era più controllabile, e quindi si impegnò a fondo per far uscire di scena il popolare senatore dell'Arizona.
L'altroieri McCain ha vinto ma, di nuovo, non è detto che per lui sia la volta buona. Dalla sua parte stanno l'integrità morale (prigioniero di guerra, decorato, si è espresso pubblicamente contro Guantanamo e la tortura) e una reputazione di indipendenza intellettuale che sono apprezzate dagli elettori indipendenti. Il vero problema è che alla base del partito, invece, non piace. Non piace perché è un pragmatico, non è bigotto, è contro le tasse e contro l'aborto ma senza farne delle crociate. Insomma, per le lobby che hanno ricostruito il partito repubblicano e oggi lo controllano è un candidato di cui diffidare.
Al contrario di quanto si pensa, la politica americana non è fatta soprattutto di soldi. Certo, averne conta, e molto. Ma, come ha dimostrato Obama in Iowa, conta anche avere migliaia e migliaia di volontari che vanno a bussare alla porta dei cittadini e cercano di convincerli. McCain non ha dietro di sé un piccolo esercito di entusiasti: è piuttosto un candidato di immagine, che piace ai giornali e alle televisioni, e questo è un handicap. I militanti della National Rifle Association, del Club for Growth e di Focus on the Family (le tre più importanti associazioni fiancheggiatrici del partito) gli preferiscono di gran lunga Mike Huckabee.
Dopo sette anni di Bush figlio, di cui sei con una maggioranza della Camera in mani repubblicane, questo è un anno in cui la maggioranza degli americani sarebbe disposta a votare per il partito democratico quasi a occhi chiusi. I repubblicani hanno quindi un disperato bisogno di leader che siano capaci di rientrare alla Casa Bianca ma la loro leggendaria capacità del partito di selezionare leader «presidenziabili» sembra oggi quasi svanita. La prova sta nelle sorti di Rudolph Giuliani, che tre mesi fa godeva del consenso di un terzo degli elettori repubblicani, poi è sceso al 27% in novembre, al 15% in dicembre e al 9% dell'altroieri: un risultato che lo cancella dalla competizione.
Il New Hampshire lascia in corsa per la nomination McCain, Romney e Huckabee ma la mia impressione è che la vera sfida sia fra il primo e il terzo: Romney è un candidato poco carismatico, scialbo, che non entusiasma né gli evangelici (è un mormone) né l'ala antitasse del partito (da governatore si dimostrò pragmatico in materia). Quindi tra i repubblicani si sta delineando la stessa dinamica che prevale fra i democratici: un confronto fra il candidato di maggiore esperienza (Clinton e McCain) contro quello più legato alla base militante del partito (Obama e Huckabee).
E' una competizione tra i candidati più in grado di convincere gli elettori indipendenti (Clinton e McCain) e i candidati più capaci di mobilitare gli attivisti (Obama e Huckabee). Si noti che, negli ultimi 25 anni, la polarizzazione dell'elettorato americano è stata molto forte e i candidati centristi hanno raramente avuto successo: oggi i repubblicani sono molto più conservatori di un tempo e i democratici molto più progressisti. Questo significa che né Clinton né McCain possono essere sicuri che la loro maggiore «eleggibilità» piaccia proprio a quei sostenitori dei rispettivi partiti di cui hanno bisogno per conquistare la nomination.
Un altro elemento interessante che riguarda entrambi i partiti è il fatto che, per la prima volta, le convention della prossima estate non saranno cerimonie a beneficio esclusivo delle televisioni: è perfettamente possibile che si arrivi alla fine con due, o addirittura tre, candidati che vogliono contarsi e far valere il peso dei propri delegati. Questo è un grave rischio per la fase finale della campagna presidenziale, quando l'unità, compattezza ed entusiasmo del partito sono necessarie per conquistare gli elettori incerti, che sono quelli da cui dipende la vittoria in novembre. Quest'anno, al contrario del solito, il rischio di divisione sembra maggiore in campo repubblicano: sia Clinton che Edwards e Obama sosterrebbero lealmente il candidato del partito che uscisse vincitore dalla convention. Per i democratici resta un problema: anche un elettorato repubblicano scontento e diviso andrebbe a votare compatto contro Hillary Clinton.

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