CULTURA

Donne pensose nei dipinti di Helene Schjerfbeck

DEL DRAGO ELENA,

Non è usuale che una istituzione museale scelga di rischiare dedicando la più rilevante tra le sue esposizioni annuali a una artista sconosciuta ai più, ed è altrettanto insolito che riesca a produrre una autentica sorpresa per la maggior parte dei visitatori: proprio questo, tuttavia, è successo al Musée d'art moderne de la Ville de Paris con la magnifica personale dedicata a Helene Schjerfbeck. Tra le cause che hanno determinato il fatto che la fama di questa artista finlandese restasse limitata, a dispetto della stima dei suoi contemporanei, ci sono ragioni sia personali che culturali, a conferma del pregiudizio per cui, prima degli anni '70 dello scorso secolo, era estremamente difficile per una donna artista imporsi. Nonostante il suo talento estremamente precoce - a soli undici anni venne ammessa alla scuola di disegno della Società finlandese di Belle Arti e approdò alla Ville Lumière, allora indiscusso centro delle arti, appena diciottenne, poi partecipò al prestigioso Salon de Paris sviluppando nel tempo un idioma personalissimo e toccante - Helene Schjerfbeck non occupa affatto il posto che merita nella storia artistica modernista.
A contribuire alla sua mancata affermazione internazionale intervennero la scelta di tornare in Finlandia nel 1990 e il ritiro in un piccolo paese non lontano da Helsinki, dopo il produttivo tour europeo interamente dedicato allo studio dei grandi classici. Se al Louvre, ma anche a Vienna e San Pietroburgo, la giovane Schjerfbeck si interessò soprattutto di Hans Holbein il giovane e di Frans Hals, a Firenze lavorò su Beato Angelico, Filippo Lippi e Giorgione. I primi risultati di questo complesso lavoro sui classici si possono osservare nei paesaggi toscani - in particolare in Ciprés, Fiesole, che ricorda l'atmosfera della celebre Isola dei Morti di Arnold Böcklin con i cipressi allontanati in una atmosfera misteriosa e nel Convalescente, il ritratto di un bambino pallido avvolto in un lenzuolo bianco e seduto in una grande poltrona in vimini: è questo il quadro con cui Schjerfbeck vinse la medaglia di bronzo alla Fiera Internazionale di Parigi, cominciando a venire apprezzata anche nel suo paese, sebbene mancasse ancora qualche anno ai suoi frutti più originali. Lo sguardo malinconico e struggente del Convalescente è infatti - a dispetto di una impostazione ancora accademica e sdolcinata - l'unico indizio dei futuri sviluppi di Schjerfbeck, che si concentrarono tutti attorno alla solitudine e alle sue diverse declinazioni temporali ed esistenziali.
Furono proprio il trasferimento a Hyvinkaa e il duro isolamento determinato prima dalle conseguenze sulla sua salute di una terribile caduta per le scale, poi dalla necessità di accudire la madre anziana, a portare Helene Schjerfbeck verso l'elaborazione di una propria grammatica visiva: l'allontanamento drastico dal palcoscenico dell'arte internazionale, che senz'altro ostacolò la sua rapida affermazione, favorì però il suo linguaggio originale all'interno dello sviluppo pittorico modernista e segnatamente nordico. Soggetto privilegato di questa ricerca fu una umanità composta da soggetti femminili socialmente eterogenei, eppure accomunati dalla stessa attitudine introspettiva dell'artista, capace di cogliere l'essenza delle persone dietro alle pose dettate dalle convenzioni sociali. Ecco dunque comparire, nei primissimi anni del '900, la vecchia madre al lavoro (A la maison, 1903), oppure intenta alla lettura di un libro sulla sedia a dondolo, (Ma Mère, 1902); i magnifici ritratti della Coutourière, del 1905 e poi del 1927, in cui una giovane donna pensosa e interamente vestita di nero siede su una poltrona con lo sguardo basso e l'aria malinconica; e ancora la Vieille Femme (1907), con un fazzoletto bianco legato attorno alla testa e una impostazione che ricorda la pittura di Holbein; oppure L'écolière (1908), colta di profilo con una gamma cromatica giocata, ancora, attorno al nero, acceso appena dalla superficie marrone di diverse tonalità.
È interessante il fatto che nessuna protagonista di questo catalogo di donne in un interno guardi direttamente lo spettatore; le poche che non tengono gli occhi abbassati seguono i propri pensieri. Tuttavia, la vera sfida all'osservatore viene dalla artista stessa, che sin da giovanissima scelse di autoritrarsi e continuò a farlo fino a pochi giorni prima di morire; e non c'è dubbio che proprio in questo disincantato e profondissimo esercizio di osservazione risieda tutta la grandezza di Schjerfbeck.
Delle centoventi opere mostrate nelle sale del museo parigino, sono proprio i venti autoritratti, infatti (metà dell'intera produzione dedicata a questo tema) a costituire, allo stesso tempo, il filo conduttore del percorso e la via principale per comprendere l'unicità di questa artista. Tra il primo lavoro su tela che ritrae ancora una ragazza ventenne sicura di sé, con lo sguardo dritto, curioso, e l'ultimo, straordinario, intitolato appunto Dernier Autoportrait, (1945) fatto con pochi segni a carboncino a tracciare ciò che ancora resta prima della dissoluzione, matura una grande capacità di lasciare da parte ogni dettaglio per mirare all'essenza dei pensieri, per cogliere gli stati d'animo.
Col passare degli anni, infatti, mentre l'inquadratura resta identica - soltanto la testa e una parte del busto si rendono visibili - l'aspetto luminoso e vivace dei ritratti viene sostituito dalla ricerca, anche tecnica, di una trasparenza e di ombre che sappiano approssimarsi al nucleo esistenziale più autentico. «I miei quadri non sono belli, avrei dovuto ricercare delle meravigliose ombre dolci e invece non arrivo a restituire che il mio povero, scuro, mondo interiore»: in questa sola frase è sintetizzata non solo tutta l'umiltà di Scherbeck ma anche la sua coscienza di essersi incamminata su una strada poco convenzionale ed estremamente moderna, sebbene distante dalla avanguardie del tempo.

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