Si chiama Offline: Baghdad. Subito il sottotitolo precisa che non si tratta solo di un altro film festival. E così è. L'iniziativa è la prima in assoluto interamente dedicata all'Iraq, organizza Offline Events in collaborazione con Peace Reporter e patrocinio provinciale (allo Spazio8, via Col di Lana 8, Milano, dal 13 al 16 dicembre). «Un'occasione unica per condividere la durezza di una realtà che malgrado la disperazione e la violenza sopravvive dando valore a piccoli gesti quotidiani e grandi episodi di umanità», si dice nella presentazione.
Le immagini che abbiamo dell'Iraq postbellico non dicono quasi nulla della realtà di quel paese. Hollywood si sta impegnando a raccontare i contraccolpi della guerra, è in uscita la In the Valley of Elah di Paul Haggis, arriverà Redacted, lo straordinario lavoro di Brian De Palma, Gianluca Arcopinto ha realizzato la docufiction Angeli distratti, ma gli iracheni rimangono comunque muti, invisibili. Solo la contabilità dei morti e degli attentati viene aggiornata. Eppure, anche in condizioni spaventose, laggiù c'è gente che deve vivere la propria vita. Che noi praticamente non conosciamo.
Nasce proprio da questa esigenza la manifestazione. Racconta Alessandro d'Ansembourg di Offline Events che l'idea è venuta a Damasco, in Siria, dove vivono due milioni di profughi iracheni. Molti intellettuali in esilio, impossibilitati a svolgere il loro ruolo. Così, con Sheryl Mendez (photo editor di Crimes War Project) affiora l'idea, proprio a partire dal fatto che Baghdad non è connessa, non può comunicare. E allora ecco il tentativo di dare parola (e immagini) a registi, ma anche a giornalisti, ai fixer, quelle figure intermedie che sono a metà tra l'autista, l'assistente, l'interprete, quelli che fanno il lavoro sporco e sul campo per i giornalisti occidentali che spesso stanno solo negli alberghi. Talvolta non hanno neppure un tesserino di riconoscimento e sono quindi ancora più esposti a ogni rappresaglia, sia da parte dell'esercito occupante, che da parte della stessa popolazione ormai diffidente. Perché, viene raccontato, «i registi e i giornalisti occidentali rischiano budget e reputazione, ma i fixer rischiano la vita». Le cifre esemplificano la situazione. Secondo il Comitato per la protezione dei giornalisti sono 113 i reporter che hanno perso la vita in Iraq, di questi 90 sono iracheni, ma il dato ancora più rilevante è quello dei collaboratori, su 40 morti, 39 sono iracheni.
Il punto di vista iracheno diventa così decisivo. Ecco allora Ahlaam di Mohamed Al Daradji, primo film di fiction realizzato dopo l'invasione e la guerra, che racconta di una giovane donna internata in un istituto psichiatrico che viene bombardato e si ritrova per la strada smarrita di fronte agli infiniti pericoli della situazione. Un altro lavoro presentato è Hometown Baghdad 1&2, si tratta di una serie di puntate sulla vita quotidiana, prodotto da Chat the Planet, visibili anche in rete (www.hometownbaghdad.com).
Il regista Ali Taleb presenta invece due titoli. The Hero, la storia di Otman, un giovane che durante l'incidente accaduto sul ponte Jisr al Oumma nel 2006, dove morirono un migliaio di persone, ne salvò diverse sacrificando la sua stessa vita. Mad about Wars invece parla dello sconvolgimento psicologico che si abbatte sulle persone quando la loro vita viene devastata da una situazione di guerra.
Mark Manning e Rana Al Ayoubi puntano invece il loro obiettivo su un autentico crimine nei confronti dell'umanità con Caught the Crossfire - The Untold Story of Fallujia. La storia di Falluja, 250mila persone, una città praticamente rasa al suolo e bombardata con il fosforo, prende corpo attraverso le testimonianze dei suoi abitanti intervistati tra il novembre 2004 e l'aprile del 2005. E l'orrore di Falluja è anche al centro di un incontro dal titolo Crossing Falluja.
Altri due incontri sono dedicati ai fixer, uno generale dal titolo Lost in Translation: lo spartiacque etico, l'altro al caso clamoroso di Bilal Hussein, fotoreporter dell'Associated Press, insignito del premio Pulitzer nel 2005, arrestato dall'esercito statunitense. Forze armate Usa che dopo averlo costretto a più di un anno di carcerazione preventiva, lo hanno formalmente accusato di essere un fiancheggiatore dei miliziani e per questo sarà processato.
Una quindicina di ospiti, una trentina di film e soprattutto moltissimi dibattiti, incontri, confronti, anche con registi e produttori italiani (si spera), il tutto con pochi sponsor sensibili e molta passione per organizzare una manifestazione che racconti un paese continuamente evocato da giornali e telegiornali ma in realtà sconosciuto.
«Sedetevi scomodi», recita la scritta sul manifesto dell'iniziativa con donne irachene quasi fantasmatiche dietro un filo spintato sfuocato. Ogni tanto può valerne la pena. Questo è uno di quei casi.