La scelta dell'Italia come ospite d'onore all'undicesima edizione di Paris Photo - la maggiore fiera internazionale di fotografia contemporanea che ha aperto ieri i battenti al Carrousel du Louvre - offre una occasione rara per fare il punto sull'immagine della nostra cultura fotografica all'estero. Una quindicina d'anni fa, un numero monografico della prestigiosa rivista americana Aperture, dedicato alle «Immagini italiane», proponeva l'iconografia di un paese sospeso tra Bell'Italia e Il padrino: da una parte il patrimonio monumentale, le amene contrade, la natura; dall'altra una vivace antropologia meridionale fatta di volti segnati, gestualità espressiva e morti ammazzati.
Tra viaggio e meditazione
Sebbene a Paris Photo questa immagine stereotipata sia ancora ben visibile in molte gallerie internazionali che rispolverano il «neorealismo» fotografico di Pinna o Camisa e la Roma anni Cinquanta di William Klein, la scelta di Walter Guadagnini, commissario nazionale di Paris Photo, è stata invece quella di identificare una koiné italiana nel tema del paesaggio, un soggetto che è anche un modo di collocarsi nel mondo e di osservarlo. Quello rappresentato dalla fotografia italiana del dopoguerra è un panorama in perenne trasformazione, un palinsesto di tracce di lungo periodo mescolate agli indizi di una recente modernizzazione. Ma la fotografia di paesaggio implica anche una modalità contemplativa, che oscilla tra «viaggio» e meditazione lenta, in un dialogo sotterraneo con la tradizione artistica che va dai Macchiaioli alla Metafisica, all'Informale.
A Parigi la mostra centrale - una selezione di opere dalla Collezione Unicredit - offre un panorama di dieci autori disposti lungo una linea evolutiva. Dai forti chiaroscuri di Mario Giacomelli e dalle riduzioni cromatiche di Franco Fontana si passa alla riflessione di Luigi Ghirri sullo statuto della fotografia come segno e rappresentazione; dagli «avvicinamenti» al paesaggio di Mimmo Jodice e Gabriele Basilico e dalle corrispettive «prese di distanza» di Vincenzo Castella e Olivo Barbieri (tutti inclusi nella fondativa mostra Viaggio in Italia del 1984) si arriva alla generazione di Luca Campigotto, Daniele De Lonti e Francesco Jodice, che chiude il cerchio riprendendo temi di una tradizione italiana ormai trentennale. Nelle mostre correlate, otto gallerie private presentano lavori di Luca Andreoni, Bianco e Valente, Botto e Bruno, Lorenza Lucchi Basili, Raffaela Mariniello, Maurizio Montagna, Eugenio Tibaldi, Carlo Valsecchi.
Assenze significative
Nel catalogo della manifestazione, Guadagnini riconosce avvertitamente che la selezione non ha pretese di completezza, e che «sarebbe improprio inventare una scuola là dove questo concetto è ancora in via di formazione». Spicca in modo evidente, tuttavia, l'assenza a Parigi di fotografi come Guido Guidi e Mario Cresci, che al tema del paesaggio antropizzato hanno dedicato sin dalla fine degli anni Sessanta una attenzione colta e approfondita, con riconoscimenti internazionali di lunga data; e la mancata partecipazione di gallerie come Lia Rumma e Monica De Cardenas, che negli anni Novanta hanno contribuito a elevare lo standard della fotografia italiana proponendo importanti autori internazionali (come Thomas Struth) assai prima che entrassero nel canone del mercato e dei grandi musei americani.
Naturalmente questo genere di assenza non riguarda solo l'Italia ed è in relazione con la natura stessa di Paris Photo: una fiera commerciale nella quale intervengono operatori privati di varia natura, dai collezionisti colti e selettivi agli investitori in cerca di affari. Tuttavia, nella storica inadeguatezza delle nostre istituzioni culturali (musei, istituti di cultura) a valorizzare la produzione fotografica nazionale all'estero, il ruolo fatalmente parziale svolto dalla Collezione Unicredit a Parigi impone di riflettere sui modi in cui la fotografia viene prodotta, sulla sua presenza nella società italiana e, concretamente, sulle strade che potranno aprirsi nel prossimo futuro per i giovani artisti che lavorano in questo campo.
Un primo livello riguarda la possibilità di nuovi approcci alla fotografia del paesaggio antropizzato. Una tendenza in atto sembra spostare sempre più l'attenzione dalla «descrizione» critica di specifici paesaggi in trasformazione, verso i due poli estremi nella gamma delle rappresentazioni: da una parte la dimensione autobiografica e personale, dall'altra «progetti» tematici su questioni sociali o civili di ampia portata. La tradizione italiana che si fondava su una (seppur elastica) nozione di luogo appare oggi superata dalla tendenza a lavorare alla scala globale. L'esplorazione delle «specie di spazi» (la provincia, le periferie, le no man's lands) ha ceduto il passo alla rappresentazione di ambiti che sono soprattutto mentali (la diversità, la condizione metropolitana, il cosmopolitismo, la globalizzzazione). Fatalmente questi nuovi programmi si basano su una dimensione «letteraria» della rappresentazione fotografica: sulla metafora, sull'allegoria e persino sullo stereotipo. Vi manca, spesso, un reale approfondimento dei temi affrontati, forse più utilmente trattabili dall'economia, dalla sociologia e dall'antropologia. Eppure oggi, nel paesaggio italiano in rapida trasformazione - anche per effetto dei programmi nazionali di «grandi (sic) opere» infrastrutturali - l'insegnamento della fotografia italiana degli anni Ottanta appare troppo presto dimenticato.
Naturalmente il mercato, anche in fotografia, premia la continua innovazione piuttosto che l'approfondimento di una tradizione recente. Utili correttivi, tuttavia, potrebbero essere apportati da un miglior coordinamento tra operatori privati e istituzioni pubbliche - un coordinamento che imporrebbe una definizione più chiara dei ruoli reciproci. Nella campagna fotografica Atlante Italiano ora esposta al MAXXI di Roma, promossa dalla Darc (la Direzione generale per l'architettura e l'arte contemporanee del Ministero per i beni e le attività culturali) e dedicata al «rischio paesaggio», l'impegno a esplorare davvero la precarietà dei territori cede talvolta il passo a nozioni consolatorie e preconcette di «rischio», secondo una retorica della «denuncia». Un compito di certo più arduo, ma anche più promettente, al quale potrebbe essere chiamata la fotografia, è invece quello del dubbio scettico, anche nei confronti di immagini mentali - come quelle sull'ambiente - che la fotografia stessa ha contribuito nel Novecento a diffondere (la ciminiera fumante, l'asfalto, il disordine).
Un secondo livello di riflessione riguarda il fatto che la fotografia, soprattutto in Italia, è stata utilizzata dalle amministrazioni locali come una sorta di arte democratica, facilmente accessibile a un pubblico non specialistico, relativamente economica e, si potrebbe aggiungere, facilmente distruggibile. Di rado vengono definiti veri e propri progetti di ricerca o di fattibilità (in determinate situazioni la fotografia non riesce a documentare alcunché); i fotografi sono spesso scelti per ragioni di fama piuttosto che per una affinità con il tema d'indagine; per la mancanza di un pubblico interessato, le costose pubblicazioni con testi «critici» di circostanza che accompagnano le mostre non trovano distribuzione; il patrimonio di opere commissionate, infine, difficilmente viene reso disponibile in archivi consultabili per lo studio, e spesso se ne perdono le tracce.
Visualità e scrittura
Per la giovane generazione di fotografi italiani di paesaggio la prospettiva di produrre opere efficaci, all'altezza dei migliori standard che vanno definendosi a livello internazionale, risiederà - oltre che nella capacità individuale - nella decisione di collocarsi con meno ambiguità tra il mercato dell'arte e il servizio pubblico. Se il primo privilegia quasi fisiologicamente l'«oggetto» fotografico (colorato, tecnologico e di grandi dimensioni), nel secondo campo c'è forse più spazio - e necessità - per una ricerca sui linguaggi. Un tema importante è quello dei limiti della fotografia «diretta» di fronte a processi strutturali che non lasciano tracce evidenti nel paesaggio (come già avvertiva Brecht negli anni Trenta). Da questo punto di vista, un campo di sperimentazione ancora poco esplorato è quello del rapporto tra visualità e scrittura: una forma di ricerca meno «oculocentrista» e più interdisciplinare, che metta a confronto modalità di descrizione diversamente inadeguate.
Molte opportunità potranno prender corpo nei prossimi anni, anche in seguito alla vetrina di Paris Photo. Ma il sospetto è che in entrambi questi ambiti - il mercato dell'arte e le commissioni pubbliche - il pubblico competente non aumenterà significativamente. In realtà la fotografia italiana di ricerca pare trovarsi - e rischia di rimanere - nelle stesse condizioni critiche in cui versano altre forme artistiche, dalla letteratura alla poesia. Alfonso Berardinelli, in un saggio sul «canone» letterario incluso nell'antologia Casi critici. Dal postmoderno alla mutazione (appena apparsa per Quodlibet), rileva ormai la sussistenza di «una letteratura non dico senza pubblico, ma quasi. La platea è semivuota, distratta, poco abituata a concentrarsi. E quindi i migliori scrittori fanno appena in tempo a entrare in scena che già vorrebbero uscirne».
Una storia da raccontare
In modo analogo, la fotografia di ricerca italiana fatica a trovare un pubblico (talvolta anche di addetti ai lavori) competente. La ricchezza di possibilità ermeneutiche offerta dai lavori di molti autori rimane tutta da scoprire, mentre il proliferare di pubblicazioni e «festival» fotografici, seppur necessari alla divulgazione, va a detrimento di mostre tematiche e monografie curate in modo filologico. Talvolta è proprio la mancanza di un'attenzione critica informata e dedicata a imporre ai giovani fotografi di rendere sempre più esplicito il «messaggio» delle proprie ricerche, con il rischio di privilegiare l'aspetto comunicativo rispetto a quello di ricerca.
La fotografia italiana di paesaggio non è stata ancora ricomposta in una «storia» (che rimane tutta da scrivere); sempre seguendo Berardinelli, si può forse dire che non è neppure stata ordinata secondo un «canone» acclarato di modelli e di valori (alcuni, spesso nominati come Luigi Ghirri, non paiono in realtà essere influenti). A ben vedere quella che abbiamo davanti rimane, più ancora che una linea evolutiva o una tradizione radicata, una «costellazione», una «porzione di cielo» nella quale si inquadrano individualità affini e vicine, ma difficilmente organizzabili in un discorso comune, al di là delle consonanze di linguaggio e dei riferimenti storici condivisi.