INTERNAZIONALE

La frontiera che sarà fronte

MANFREDI EMILIOFreweyne (frontiera etio-eritrea)

Liya osserva gli animali girare attorno alle balle di fieno: una delle tradizioni contadine etiopi utilizzate per ripulire le messi. L'agricoltura non è ancora meccanizzata qui a Freweyne, uno degli ultimi centri abitati del Tigray, la regione d'Etiopia al confine con l'Eritrea, e in questi giorni si lavora febbrilmente nei campi per finire di mietere il grano e gli altri cereali di questo raccolto. «Stiamo cercando di finire il prima possibile», racconta la donna, sistemandosi sul capo lo straccio che le tiene assieme i capelli. «Tutti continuano a dire che la guerra scoppierà presto, e a quel punto non si potrà più lavorare». Oltre la vallata, mentre Liya racconta le sue paure, un centinaio di militari etiopi prende posizione su un cocuzzolo. Poco più in là, una batteria di artiglieria giace seminascosta tra il fogliame. Ovunque, sul versante etiope del lungo confine che divide il Paese dall'Eritrea si assiste ad un imponente aumento della presenza di militari.
Nei bar e nelle piazze di tutto l'altopiano abissino, oramai non si parla d'altro. Non ci si chiede nemmeno più se scoppierà un nuovo conflitto frontaliero tra i due Paesi gemelli che fino al 1993 erano una sola Nazione, ma quando avrà inizio e quali conseguenze avrà. «Nelle ultime settimane, ho visto troppi spostamenti di truppe in direzione del confine per non capire: non c'è più margine per la pace», racconta Hailou, in una pausa del suo lavoro di autista di camion. «Visto che ormai questa guerra ci sarà, speriamo solo che sia breve e che costi meno vite umane dell'ultimo conflitto». Si ritorna al punto di rottura, sette anni dopo l'ultima guerra di frontiera, scoppiata per motivi apparentemente futili: ci si contendevano le terre pietrose attorno al piccolo villaggio di Badme. In realtà le ragioni erano altre, principalmente di ordine politico ed economico. L'Etiopia, dopo l'indipendenza eritrea, si ritrovò senza più accesso diretto all'Oceano Indiano. Quando l'accordo commerciale che garantiva ad Addis Abeba l'utilizzo del porto eritreo di Assab saltò, la lotta per il primato nel Corno d'Africa e la necessità di divergere l'attenzione da problemi di democratizzazione interna fecero scoppiare il conflitto.
Gli accordi di pace di Algeri, nel 2000, fermarono la carneficina, ma le relazioni tra i due governi non si andarono normalizzando, nè si è giunti ad una demarcazione del confine. Dal 2002 l'Etiopia, pur accettando in linea di principio le decisioni della Commissione incaricata di demarcare la frontiera, ha di fatto impedito la demarcazione fisica del confine. Negli anni, d'altro canto, l'Eritrea ha impedito alla missione di peacekeepers delle Nazioni Unite (Unmee) di svolgere il proprio lavoro, ponendo una serie di limitazioni di movimento ai caschi blu, ed espellendo tutto il personale occidentale della missione. La tensione è dunque rimasta alta in tutti questi anni, e già diverse volte si è temuto che le ostilità potessero ricominciare. Questa volta più che mai: pochi giorni fa, il centro studi International Crisis Group (Icg) ha lanciato un duro allarme circa la possibile esplosione del conflitto nelle prossime settimane, chiedendo alla comunità internazionale di impedire a Etiopia ed Eritrea di scivolare in una nuova guerra di frontiera. Il vicepresidente di Icg, Donald Steiberg (un ex-diplomatico dell'amministrazione Clinton che ebbe anche un ruolo importante nelle negoziazioni di Algeri), ha invitato la comunità internazionale ad ammonire le due parti circa i rischi reali di un nuovo conflitto. "Crediamo sia necessario che il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, gli Stati uniti, e tutti i Paesi che hanno supportato gli ultimi accordi di pace chiedano a entrambi i governi di ridurre la tensione sulla frontiera», ha affermato Steinberg. «L'Etiopia che deve accettare le decisioni della commissione per la demarcazione del confine (che peraltro ha deciso prevalentemente a suo favore, ndr). L'Eritrea invece deve permettere alle truppe delle Nazioni Unite di riprendere le operazioni nella zona demilitarizzata».
Sul terreno, nessuno sembra dare ascolto a queste parole di pace. La tensione su entrambi i lati del confine continua a crescere, e le truppe si fronteggiano in numero sempre maggiore e sempre più vicine le une alle altre. Sempre Steinberg ha dichiarato: «Siamo molto preoccupati per i movimenti di truppe eritree all'interno della zona demilitarizzata, oltre che per il numero di rinforzi etiopici inviati al confine. Al momento, centinaia di migliaia di soldati si trovano gli uni davanti agli altri. In alcuni casi, sono a meno di 100 metri gli uni dagli altri». Una situazione disastrosa, in cui i due governi, pur dicendo di voler evitare a tutti i costi una guerra, non smettono di lanciarsi accuse reciproche. Addis Abeba da tempo accusa l'Eritrea di voler destabilizzare l'Etiopia, sostenendo politicamente e militarmente i gruppi armati ribelli attivi nel Paese (Onlf e Olf in primis), e di stare attentando alla sovranità del più grande vicino, mentre il governo di Asmara parla di una prossima invasione etiopica, e di tentativi di colpo di Stato in Eritrea fomentati da Addis Abeba.
Di certo, il contenimento di problemi politici e dissapori sociali interni pare giocare un ruolo fondamentale nelle decisioni di entrambi i governi. Sullo sfondo rimane la guerra per procura che si combatte già, da molti mesi, in Somalia, dove oltre trentamila soldati etiopi aiutano il governo provvisorio somalo a rimanere in vita, e a confrontarsi quotidianamente con una insurrezione armata di tipo islamista e clanico, che secondo molti analisti riceve aiuti diretti dal governo eritreo.
Una situazione caotica che rischia ora, in caso dello scoppio di una guerra etio-eritrea, di destabilizzare definitivamente il Corno d'Africa. Per ora nell'ombra rimangono gli Usa, il nume tutelare che appoggia le campagne d'inverno etiopiche. Dopo aver sostenuto il proprio migliore alleato nella guerra in Somalia iniziata il Natale scorso per cacciare le Corti Islamiche da Mogadiscio, è arrivato qualche mese fa l'appoggio silente degli Usa alla rimozione del regime di Asmara, accusato dalla Vice segretaria di Stato Jenday Frazer di «sostenere il terrorismo».
Nella capitale etiope la vita scorre apparentemente tranquilla, ma chi è seduto la sera davanti all'unico canale televisivo nazionale non ha dubbi: «Parate militari, esasperazione del nazionalismo. Succede solo in caso di colpo di Stato e di guerra. Ma queste terre hanno bisogno di sviluppo, non di investimenti militari. Possibile che la comunità internazionale non muova un dito per fermare un altro massacro annunciato?».

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