Il problema della «memoria condivisa» passa anche attraverso il modo in cui vediamo gli anni '70. A fronte delle complesse ricostruzioni storiche, giuridiche e memorialistiche di quel decennio, l'immagine che l'industria culturale ne ha elaborato è una rievocazione per frammenti che si dispongono lungo una precisa linea simbolica e narrativa: la catena di montaggio, i cancelli della fabbrica, i cortei, i manifestanti che sfidano le uniformi, il braccio alzato a simboleggiare la P38, il lancio di sanpietrini, il braccio teso che brandisce la pistola reale, gente che fugge, un morto per strada coperto da un lenzuolo; e poi le foto segnaletiche, le gabbie dei processi, i pugni alzati in manette... A ognuno di questi momenti corrisponde una fotografia-tipo in bianco e nero, distante, congelata. Queste immagini senza più didascalia, ripetute e depositate nell'immaginario collettivo, risultano rassicuranti (a dispetto di ciò che mostrano) proprio perché appartengono definitivamente al passato, a quel campo chiuso dell'immaginazione che Roland Barthes chiamava: «è stato».
In realtà i rapporti tra il discorso storico-politico e il campo visivo degli anni '70 sono assai più articolati e interessanti, anche se occorreranno ancora molte campagne archeologiche per ricostruirli. La fotografia, in particolare, ha attraversato inquietamente i campi più diversi dell'immagine, dall'arte concettuale all'attivismo, dalla sorveglianza poliziesca al diario personale; ed è stata in quegli anni non solo ampiamente praticata, ma anche riprodotta e diffusa attraverso canali radicalmente alternativi rispetto alla stampa «borghese». Da questo punto di vista è significativo che a Venezia '79, la kermesse fotografica che a un anno dal sequestro Moro portò in Italia i capolavori di Eugène Atget e Alfred Stieglitz, gli unici accenni (peraltro molto indiretti) all'attualità fossero le denunce del lavoro minorile di inizio '900 di Lewis W. Hine e l'iconografia gangsteristica degli anni '40 di Weegee.
Da allora le mostre sulla fotografia degli anni '70 si sono susseguite proponendo spesso una funzione illustrativa del mezzo o concentrandosi su «generi» artistici o professionali: il reportage impegnato, lo «sperimentalismo», l'utilizzo da parte di artisti concettuali. Se è mancata una riflessione approfondita sui modi specifici in cui le pratiche fotografiche incrociano la politica (e la violenza politica) degli anni '70, la ragione sta anche nella relativa assenza in Italia di artisti che si sono occupati specificatamente di questi aspetti. Solo in anni recenti Francesco Arena ha creato un'opera (ora reinstallata alla Triennale per la mostra Annisettanta. Il decennio lungo del secolo breve) che riproduce in scala reale lo spazio in cui Aldo Moro venne tenuto prigioniero in via Montalcini. All'estero la situazione è diversa. Un caso notevole è la serie «April 21, 1978» di Sarah Charlesworth, presentata alla mostra La pratica politica alla Galleria Civica di Modena proprio nel '79: 45 riproduzioni delle prime pagine che pubblicavano la seconda polaroid scattata dalle Brigate Rosse a Aldo Moro, da cui l'artista aveva cancellato il testo di tutti gli articoli. Ma l'esempio più significativo di un'opera che cercava di rielaborare artisticamente l'immaginario fotografico della violenza politica degli anni '70 rimane «18. Oktober 1977» di Gerhard Richter: quindici dipinti che commemorano la cattura, la prigionia e la morte di Holger Meins, Ulrike Meinhof e altri membri della Baader-Meinhof, rielaborando fotografie di cronaca nello stile pittorico in bianco e nero, apparentemente «sfuocato», tipico dell'artista tedesco. Sin dalla prima apparizione, nel 1988, la serie venne variamente interpretata, sollevando dibattiti e controversie sia in Germania sia negli Stati Uniti, dove nel '95 è stata acquisita dal MoMA di New York. La consolante aura del bianco e nero fotografico, trasferita nella materia pittorica, viene messa in evidenza e fatta reagire con la forza descrittiva delle immagini di cronaca, che riguardano eventi traumatici per l'immaginario tedesco, come i «suicidi» sospetti nel carcere di Stammheim.
Alcuni anni fa è stato proprio uno studioso tedesco, Ulrich Baer (in Spectral Evidence: The Photography of Trauma), a suggerire come il miglior utilizzo delle fotografie che toccano traumi collettivi non riguardi il loro statuto di documenti storici, ma la possibilità che offrono di dar corpo a un'esperienza negata. Si potrebbe considerare anche la violenza politica degli anni '70 (come l'Olocausto discusso da Baer) come un trauma collettivo, un'eredità culturale rimossa che attende di essere articolata in un discorso pubblico; e le fotografie che testimoniano quei fatti come rappresentazioni altrettanto arrestate, fotogrammi di un film della storia che attende di essere rimesso in movimento. Far reagire di nuovo esperienze e immagini permetterebbe forse di uscire dalla situazione attuale, bloccata nel silenzio tra la nostalgia e la condanna.