CULTURA

Morti R. Brooks Kitaj e Ileana Sonnabend

Lutti in casa Pop
DI GENOVA ARIANNA,

Il grande giorno della Pop è alle porte. La «festa» è prevista per venerdì, quando l'esercito rumoroso di artisti americani e inglesi, fra lattine di Coke e design anni Sessanta, sbarcherà alle Scuderie del Quirinale di Roma per la mostra dedicata al movimento che trasformò le macerie del dopoguerra in un ipermercato del desiderio, coltivando democraticamente per tutti una sola illusione: l'eternità del consumatore. Ma quando la rassegna aprirà i battenti (a cura di Walter Guadagni, visitabile fino al 27 gennaio prossimo), quel mondo di collages, cibi in scatola, bandiere e gadget vari, quell'apocalisse del consumo modello middle class sarà orfana recente di ben due protagonisti. La Pop è in lutto. Ieri ha visto chiudersi la sua epoca d'oro con la scomparsa della gallerista e collezionista novantaduenne Ileana Sonnabend, moglie del triestino Leo Castelli che, prima del divorzio, condivise con lui i trionfi della nuova avventura artistica in America (fuggirono dall'Europa alla vigilia della seconda guerra mondiale). Inoltre, è sempre di ieri la notizia della morte di Ronald Brooks Kitaj, classe 1932, statunitense naturalizzato inglese, che fu fra i capofila della pop britannica. Kitaj ebbe una vita spericolata (si imbarcò più volte su navi mercantili), fece studi londinesi, compreso il prestigioso Royal College, ebbe amicizie influenti (David Hockney e Lucien Freud); ma la sua carriera pittorica non si guadagnò la stessa fortuna che premiò i suoi compagni di strada provenienti dalla «School of London». Ci furono periodi in cui Kitaj venne ferocemente attaccato dalla critica, e così, alla morte della sua seconda compagna, Sandra, gli fu facile accusare i giornalisti di averla uccisa con le cattiverie pubblicate (e per protesta preferì Los Angeles all'Inghilterra).
La sua arte, valendosi di un tratto che incideva il segno con fermezza, o del collage di più elementi diposti in maniera paratattica, pescava nella cultura di massa (riviste, negozi, miti e icone, non escludendo idoli letterari come Kafka e Ezra Pound) ma spesso deviava verso una matrice più storico-politica; la stessa che lo portò a indagare la morte di Rosa Luxemburg così come l'identità ebraica (cultura dalla quale proveniva per via materna) nel difficile post-Olocausto. Il personaggio di Joe Singer divenne la metafora dell'individuo in esilio, il sopravvissuto per antonomasia alla Shoah.
I riferimenti di Kitaj, inoltre, non si limitarono agli abbagli della metropoli moderna ma si addentrarono negli atelier di pittori «classici» come Manet, Degas, Matisse e Picasso. Nei suoi quadri il colore è sempre un protagonista ingombrante. Di Kitaj è stato detto in più occasioni che fu vittima di un gap fra culture diverse: dall'«alfabeto» pop dei primi anni, una volta in California la sua attenzione si spostò definitivamente sui maestri, focalizzandosi soprattutto sulle linee compositive e geometriche tipiche di Paul Cézanne.
In Italia arrivò nel 1964: era con i Pop americani che conquistarono la Biennale di Venezia. Trent'anni dopo, era il 1995, sempre in Laguna, conquistò il Leone d'oro. Fu l'apice della sua carriera: aveva ormai al suo attivo una retrospettiva alla Tate di Londra e una al Metropolitan di New York; ma nonostante i successi, non riuscì mai a guadagnarsi i favori della critica.

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