Sidney Lumet non è sbarcato a Roma, ma ha mandato, fuori concorso, Before the devil knows you're dead, uno dei film più aspri e robusti tra quelli passati sugli schermi in questi giorni. A conferma che l'età anagrafica conta poco, quel che dà spessore è il talento, le storie e la capacità di raccontarle. La vicenda affronta e disintegra letteralmente i rapporti famigliari e i suoi componenti attraverso una narrazione che si muove a capitoletti in cui si ricostruiscono i momenti chiave e intrecciati delle giornate vissute dai diversi protagonisti nel periodo che prevede e segue l'evento clou: la rapina. Rapina che finisce malissimo, l'anziana titolare di una gioielleria in fin di vita e il rapinatore seccato dalla medesima. Il colpo è stato pensato da un manager con vizi costosi e matrimonio allo sbando. Lo ha suggerito a suo fratello, perennemente a caccia di denaro, che a sua volta ha coinvolto un malavitoso di mezza tacca. Ora, i due fratelli sono figli dei titolari della gioielleria, che si ritrovano così a piangere due volte, per la perdita di mamma e quella del malloppo che avrebbe potuto farli svoltare. Così, entra in gioco papà, che non si dà pace per quel che è successo. Tradimenti, rancori, timori, tutti i tasselli vanno a convergere verso un finale sorprendente a di rara cattiveria. Un ritratto impietoso di straziante cinismo che Lumet dirige magistralmente, supportato da un cast di grande livello. A partire da Philip Seymour Hoffman, mente perversa che avvia la spirale tragica, Ethan Hawke il fratello debole che sbaglia ogni mossa, Marisa Tomei noglie di uno e amante dell'altro e un Albert Finney paternamente sconvolto. Il titolo del film deriva da un detto irlandese che recita «bisognerebbe provare almeno mezz'ora di paradiso, prima che il diavolo sappia che tu sei morto». Ma quella mezz'ora di paradiso neppure si intravede, il diavolo si annida dentro tutti i personaggi, compresi quelli secondari che si affacciano con il loro portato di odio e cattiveria in un film che pure si apre con una caldissima scena di sesso, prima di spiazzare continuamente con gli eventi che si susseguono si incastrano e incarogniscono storia e personaggi.
Sempre targato Usa un altro film intenso, Noise, secondo film di Henry Bean come regista dopo The Believer. Questa volta siamo nella commedia con Tim Robbins protagonista ossessionato dai rumori, soprattutto quelli inutili provenienti dagli antifurto delle auto che impazzano trapanando le orecchie. Così decide di fare quello che tutti hanno almeno immaginato una volta nella vita: diventa The Rectifier, il correttore. Scende per le strade armato di martelli, cesoie e altro e interrompe le odiose sirene strapazzando lamiere e cristalli. Ottiene spesso il plauso di chi sta intorno, in compenso viene arrestato, passa un mese in galera, perde il lavoro e la moglie lo caccia di casa. La sua battaglia prosegue contro il sindaco di New York, William Hurt (una macchietta), attraverso una buffa escalation tra petizioni e cause legali. Il buffo della storia sta nel fatto che Henry Bean ha sublimato in questo modo la sua pulsione da correttore, visto che aveva iniziato davvero lui stesso a scagliarsi contro le auto, ottenendo in cambio dei guai con la polizia. E la commedia antinquinamento acustico che ha confezionato funziona perfettamente attraverso un utilizzo funzionale dei suoni e delle immagini, arrivando a splittare spesso lo schermo sino a farlo diventare un caleidoscopio, mostrando in contemporanea le opzioni del buon senso e quelle dello spettacolo.