CULTURA

Quel frutto avvelenato del diritto che stabilisce la misura della colpa

MORTELLARO ISIDORO D.,

La pretesa di erigere le libertà di merci e capitali a metro dell'umana felicità ha provocato immani sconquassi. La scena finanziaria globale si intorbida di relazioni contronatura, tra Stati Uniti e Cina, mentre la politica ovunque si riduce alla gestione di casinò, lesta a fornire liquidità a giocatori in bolletta. Su più umani gironi imperversano migrazioni e diaspore. Né resistono casematte sociali o politiche: le diseguaglianze lacerano la società per strappi insanabili. Democrazie orfane di partecipazione si scoprono impotenti e assediate: si cingono così di muraglie e carceri rivalutate ovunque a balsamo di società impaurite.
Su questa straordinaria invasività di carcere e pena richiama ora l'attenzione Marcello Strazzeri con Il teatro della legge. L'enunciabile e il visibile (Palomar). Alcuni dati sono noti. Mentre anche la «muraglia cinese», dopo il «Muro», si sgretola, ma sotto i colpi di incuria e inquinamento, ovunque si costruiscono nuove barriere, fisiche o virtuali, in filo spinato o elettroniche. Fatica di Sisifo, puntualmente aggirata, e perciò rafforzata e puntellata dalla diffusione di «campi» e «regimi» speciali destinati al trattamento dell'immigrazione, di ciò che trasborda, rompe e invade il nostro vissuto. Né è diversa la cura riservata agli ultimi: rom o lavavetri che siano. Il carcere ovunque moltiplica se stesso e la propria popolazione, setacciando tra i più deboli, i meno allenati alla corsa. Sull'onda della «guerra al terrorismo», gravida di circuiti penali speciali per i «nemici non combattenti», l'Occidente edifica le proprie garanzie di sicurezza e vita su forme di «razzismo differenzialista» che discriminano la vita e i movimenti altrui (filtri all'immigrazione, ai ricongiungimenti, espulsione ecc.).
A rendere prezioso il lavoro di Strazzeri è però soprattutto la «decostruzione» delle forme e delle figure che si sono venute addensando nella storia della civiltà occidentale. In particolare, in quell'aporia costitutiva del giuridico rappresentata dal bisogno di «amministrare un diritto calcolabile in nome di una giustizia per definizione incalcolabile». Indagata con le lenti analitiche fornite da Derrida, quell'aporia, quel viluppo così fascinoso, svela e interroga un'onda profonda della storia d'Occidente già evidenziata dal giovane Walter Benjamin: è la violenza che crea il diritto, ma è sempre la violenza che conserva il diritto. Ed è qui che il bisturi affonda, nei nodi storici tra legittimità e sopruso, potere e diritto, che volta a volta hanno rivoluzionato o trattenuto la storia, santificato o defenestrato eroi e tiranni. Le pagine del volume ci accompagnano così in una accurata rivisitazione della tradizione occidentale - da Sofocle, Eschilo e Platone a Giordano Bruno, Hugo, Kafka e Sciascia - mentre il Teatro della legge fa rivivere alcune delle scene e degli attori più celebrati: Antigone, Oreste, Jean Valejean, K., Rogas.
Un filo rosso si dipana sicuro, mostrandoci la faticosa emancipazione del soggetto occidentale dal fato, dai gravami di un destino universale, e il suo approdo alla libera figurazione dell'individuo, della persona giuridica. È lento e contraddittorio il processo che porta la colpa a liberarsi dai fondali che la incatenevano alla hubris umana, dissolutiva della regola e dell'armonia divine, e a costituirsi in possibile attributo del libero arbitrio. Né è l'evoluzione della pena: da supplizio del corpo del suddito, per risarcire la sacralità violata degli dei o del sovrano, in contenzione moderna del tempo, sminuzzato negli atti rigidamente determinati e controllati del detenuto.
L'accurata decostruzione «dei delitti e delle pene» ripensati e rifratti dalla coscienza occidentale ci immunizza meritoriamente da una lettura linearmente progressiva, tesa ad incensare l'individuo e lo Stato moderni. Qui sta il cuore del volume: al fondo della storia d'Occidente si erge l'individualizzazione di delitto e pena; ma di pari passo si è glorificata anche la perdita progressiva di ogni loro determinazione sociale. Dal moderno «teatro della legge» è scomparso il «coro». Nella tragedia greca giudicava la colpa, rammentando all'eroe l'inevitabilità del castigo, ma riconosceva anche il vulnus prodotto come colpa condivisa, proclamandosene partecipe. La messa in guardia dall'assolutizzazione del penale tipica del mondo contemporaneo è stringente, soprattutto perché accompagnata nel libro dal rilievo assoluto consegnato a pagine profetiche di grande nettezza - da Kafka a Sciascia - sulla tendenza a confondere luoghi e soggetti del processo, fino all'inversione cronologica di colpa e pena, o a ridurre l'agone processuale all'impari rapporto tra imputato e giudice istruttore.
Di sicura efficacia sono le pagine sullo «stato di eccezione» alle regole dello Stato costituzionale e quelle dedicate al «campo», come paradigma dissolutivo del diritto. Il pensiero più critico ed avvertito non li ha mai considerati deviazioni o parentesi, ma aveva provato comunque a distanziarli nel tempo, riconoscendoli figli di un Occidente e di una barbara modernità definitivamente consegnati alla storia. L'ingresso nel XXI secolo ci ha rapidamente imposto un feroce rinsavimento. Abbiamo avuto ragione della barbarie nazista e del campo di sterminio in cui si celebrava il discrimine della razza e si esercitava il diritto di morte sulla persona fisica. Oggi, però, naufraghiamo rovinosamente nella edifizione di procedure e «campi» dedicati al triage dell'immigrazione, al trattamento differenziato dei «rifiuti» secreti dal metabolismo globale, alla soppressione della persona giuridica. In essi maneggiamo impunemente il discrimine asimmetrico della cultura come crivello selettivo dei flussi che percorrono e fanno la scena globale. In generale diveniamo vittime volenterose della tentazione a delegare grandi questioni sociali alla carcerazione. Dalla concreta amministrazione di questa malaccorta deriva abbiamo ricavato finora sistematiche e ripetute disillusioni, prontamente mutate in mostruose casse di risonanza. Di esse è figlia una politica che oggi - sull'onda delle nuove guerre preventive - declina e muore nella produzione sociale della paura e del bisogno di sicurezza o nella individuazione preventiva del criminale.
Dalle righe di Minority Report Philip K. Dick ci aveva ammonito sui difetti delle metodologie precrimine: «arrestiamo individui che non hanno infranto alcuna legge». Su un versante altro da quello fantascientifico questo libro ci sollecita a riconoscere che tra delitto e castigo si è da tempo spezzato un equilibrio: quello che correva tra l'individuazione del veleno e la prescrizione del suo antidoto, del farmaco, costituito appunto dalla somministrazione differenziata del veleno stesso. È imperativo ammettere quanto dannosa e profonda si è fatta l'assuefazione. È tempo di disintossicarsi e rinsavire.

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