Planet Terror di Robert Rodriguez sbarca in Italia in solitaria. Negli Stati uniti era uscito in accoppiata con A prova di morte di Tarantino (programmato da noi in tarda primavera), con il titolo Grindhouse. Un doppio film come quelli dei drive in di un tempo. Ma i risultati inferiori alle aspettative hanno spinto i Weinstein, produttori ormai autonomi dopo essersi sganciati dalla Miramax, rimasta alla Disney, a utilizzare i film separatamente per i mercati mondiali. Dovrebbe essere proprio lo spezzone di Rodriguez a guadagnarci. Tanto per cominciare Robert non ha dovuto faticare molto per ottenere una durata adeguata. Si è limitato a ripristinare quel che aveva dovuto togliere nel montaggio per il mercato americano.
Inutile dire che la pellicola è sgranata, per dare un tocco vintage, poi si comincia subito con il trailer di un film inesistente: Machete. E sono scintille di cinema d'azione e di senso con una densità narrativa farcita di sarcasmo che fa venire un gran voglia di vedere il film per intero. Non è l'unico trailer, in tv c'è anche il momento omaggio a Jonathan Demme e indirettamente a Roger Corman, attraverso un rimando a Caged Heat (Femmine in gabbia). La storia, se vogliamo, è quella solita: gli zombi impazzano e qualcuno deve cercare di salvare l'umanità dal disastro. Ma non è l'esercito, sono invece tre figure qualsiasi a doversi fare carico del compito. Una è una go go dancer, si esibisce nei locali per la gioia un po' bavosa dei clienti. Non che abbia proprio la vocazione, ma tocca campare. Poi però Rodriguez gioca pesante con lei, le fa perdere una gamba durante un incontro ravvicinato con gli zombi, ma subito rimedia facendole applicare una mitragliatrice come protesi che si rivela molto utile nello sgominare morti viventi e regala al film un tocco di lucida e irresistibile follia. Il secondo personaggio è l'ex della danzatrice, addetto alla guida di un carro attrezzi, nulla di particolarmente eroico, ma il ragazzo, unico uomo del trio, ci sa fare. A completare una dottoressa che a causa di un incidente non può praticamente usare le mani, ma usa magnificamente la zucca per dispensare consigli, a tratti esilaranti come nel momento in cui chiude il figlioletto in macchina intimandogli di non aprire a nessuno, e quando quello replica «neanche a papà» lei categorica risponde «soprattutto se viene papà». Rodriguez sguazza compiaciuto tra gli umori bassi del genere, fetidi bubboni che esplodono, calotte craniche svuotate come quelle bucce d'arancia ripiene di gelato, sangue che schizza ovunque, arti che volano. Ma dietro tutto questo, come faceva del resto Corman, Rodriguez lascia intravedere la sua critica durissima alla guerra. Non solo l'epidemia parte da una base militare, culla di nefandezze, ma quando appare Bruce Willis che si vanta di avere steso Bin Laden, viene subito zittito dai suoi commilitoni. Per sempre. Non si può essere tanto imbecilli da sottrarre lo spauracchio numero uno, l'unica possibilità rimasta per poter giustificare il perpetuarsi del disastro. Spiazzante anche il finale del film in cui la speranza per il futuro viene da uno sguardo dolcissimo sui resti maya di Tulum, quasi a sottolineare come siano proprio gli immigrati e la loro cultura (a suo tempo massacrata) l'unica alternativa. A completare poi gli omaggi e i riferimenti cinematografici ci sono Gorge Romero, che sembra dominare la scena, John Carpenter, le cui musiche hanno ispirato lo stesso Rodriguez («non esistono musiche d'azione da orchestra messicana, quindi le ho scritte io» confessa), poi Tom Savini, regista e curatore di effetti trascinato davanti alla macchina da presa come interprete, anche per celebrare il decennale di Dal tramonto all'alba. Il film che aveva suggellato il matrimonio artistico tra Rodriguez e Tarantino in cui compariva lo stesso Savini tra gli interpreti. Con Planet Terror l'exploitation ritrova il suo senso artistico, anche perché Rodriguez scherza sulla paura che il film dovrebbe generare. Questi film sono fatti per sorridere, «bisognerebbe avere paura del fatto che siano tre persone qualsiasi a dover diventare eroi per salvare l'umanità».
Curioso che nello stesso momento in cui si affaccia nelle nostre sale il film di Rodriguez, ne arrivi un altro che ha molti punti di contatto. 28 settimane dopo di Juan Carlos Fresnadillo, sequel del film di Boyle. Qui gli zombi sono tali per un virus, la Gran Bretagna è ormai spopolata, Londra è presidiata dall'esercito Usa e in trasparenza sembra Baghdad. La differenza sta nel fatto che Fresnadillo non fa ridere, gioca pesante sui sentimenti, la sicurezza e la parola alle armi. Anche in questo caso però per leggere la realtà contemporanea la chiave horror sembra perfetta.