LA PAGINA 3

I monaci chiamano, non lasciamoli soli

BRIGHI CECILIA

Gli straordinari avvenimenti di questi giorni in Birmania non sono un fuoco di paglia destinato a spegnersi, neanche di fronte ai possibili interventi repressivi della giunta militare birmana e non potranno essere liquidati tanto facilmente neanche dalla tradizionale indifferenza dei governi e dai potenti interessi geopolitici ed economici di cui il popolo birmano e la democrazia sono stati sino ad ora le grandi vittime.
Le manifestazioni pacifiche di questi coraggiosi uomini scalzi, senza armi con solo le loro ciotole e le bandiere come potenti armi simboliche, seguono le prime proteste altrettanto pacifiche dei birmani a seguito dell'ultima ignominia del potere militare. Il drastico aumento dei prezzi della benzina, del gas e dei generi di prima necessità a partire dal riso sta gettando ancor più sul lastrico il popolo di questo paese ma di rimando ha colpito anche i monaci, che vivono di offerte. Quando non si può più neanche comprare il riso, ma solo l'acqua di cottura di scarto, vuol dire che non si può neanche fare il gesto quotidiano e naturale di dar da mangiare ai monaci. Un paese ricchissimo come la Birmania costretto a mangiare l'acqua di scarto del riso, costretto al silenzio dalla paura della repressione quotidiana, dalle torture nelle carceri, dagli stupri, dal lavoro forzato, da un esercito che è il piu grande in quell'area del mondo è oggi un paese cresciuto politicamente e pronto a tutto. Le proteste di questi giorni infatti, a differenza del famoso 8 agosto 1988 non sono per nulla spontanee, ma sono il frutto di un difficilissimo e rischioso lavoro sotterraneo, silenzioso, difficile messo in piedi dalle organizzazioni democratiche birmane nel corso di questi ultimi anni. Un lavoro di costruzione della coscienza collettiva, di promozione organizzativa, di costruzione di reti interne, di dialogo tra le varie organizzazioni che rappresentano le nazionalità etniche del paese, spesso in conflitto tra di loro in passato e che hanno sempre chiesto uno stato democratico ma federale.
E oggi che finalmente si parla di questa dittatura violenta, che dal 1962 ha potuto uccidere impunemente migliaia di poveri abitanti dei villaggi, violentare centinaia di donne per sfregio e per ritorsione politica, che ha gettato nelle durissime prigioni del paese migliaia di persone che avevano osato parlare, criticare, pensare, scrivere e organizzare l'opposizione politica e sindacale, oggi questa sottile e fragile rete organizzata va alimentata, curata, sostenuta. Ci volevano i monaci buddisti per rompere il velo di silenzio della stampa. Oggi tutti vogliono correre a Rangoon per vedere, scrivere, filmare. Questo sì, potrebbe essere un fuoco di paglia ordito dai media affamati di novità e notizie, un fuoco rischioso per i monaci buddisti, i dimostranti e le organizzazioni democratiche di questo paese. Finché ci sarà la notizia, si riuscirà forse a ridurre il rischio della repressione brutale della giunta e finché si garantirà l'attenzione internazionale si riuscirà forse a evitare il ritorno dell'indifferenza politica, ancora oggi non scalzata del tutto.
In Europa ad esempio, solo Gordon Brown ha preso una posizione decisa e si è impegnato pubblicamente ad affrontare la questione birmana sia a livello Ue che a livello di Consiglio di sicurezza Onu. In Italia una importante mozione approvata dal senato a sostegno della democrazia, per la liberazione dei prigionieri politici e sindacali, non ha visto ancora il nostro governo in azione. La strategia della Farnesina è ferma ad una vecchia e inconsistente tattica del «dialogo costruttivo». Un dialogo a senso unico. Anzi un monologo, visti i fatti di questi ultimi anni, mesi e giorni. Sino ad oggi chi ha tentato questa strada, come il vecchio governo tailandese, l'ha vista fallire immediatamente e ha offerto il fianco solo a un utilizzo strumentale da parte della giunta di questa strategia, si auspica decisa in totale buona fede e senza secondi fini, soprattutto nei rapporti con Cina, Russia e India. La giunta birmana può sedersi a un tavolo di dialogo solo se con l'acqua alla gola. Solo se le sue risorse venissero drasticamente tagliate. Gas, legname, minerali, pietre preziose, prodotti ittici, tessile abbigliamento sono tutti settori che portano enormi proventi alla giunta e ai loro amici e che permettono contemporaneamente il riciclaggio dei proventi della vendita di oppio e metanfetamnine.
Un'azione politica per chiudere i rubinetti dei loro profitti avrebbe un doppio effetto. Il primo economico e il secondo politico. Ma sarebbe anche un messaggio chiaro non solo alla giunta militare e al sistema delle imprese che fino ad oggi, come l'Unocal e la Total-Fina, pur di lavorare in Birmania hanno avallato l'utilizzo del lavoro forzato e le durissime condizioni di sfruttamento dei lavoratori locali. Oggi è tempo di voltare pagina. È tempo di superare, anche in Italia, le solite politiche gattopardesche. I comunicati che rimangono polverosi sui siti delle istituzioni e dei governi. È tempo di decidere azioni politiche incisive.
Oggi di fronte alla evidente capacità organizzativa della dissidenza birmana, di cui i monaci sono una componente importante, i governi devono cambiare passo. Si dovrebbe utilizzare l'assemblea dell'Onu per decidere la convocazione urgente di una riunione del Consiglio di sicurezza per l'approvazione di una risoluzione che costringa la giunta a negoziare con l'Onu, non lasciando però solo nella presa di decisioni il suo rappresentante speciale Ibrahim Gambari. I legittimi rappresentanti del governo in esilio e i parlamentari eletti nelle uniche elezioni democratiche del 1990 dovrebbero avere una diversa udienza nelle sedi diplomatiche.
Finalmente le organizzazioni democratiche rappresentate dalla Ncub (la National coalition of union of Burma), che raccoglie tutte le organizzazioni sindacali, dei monaci buddisti, degli studenti, delle donne etc. il cui segretario generale è il segretario del sindacato birmano Ftub, dovrebbero essere consultate nelle scelte politiche fatte dai governi. Un esempio lampante di quanto questo sia mancato sta nella iniziativa promossa dal ministero degli esteri italiano di finanziare e organizzare un corso di diritto umanitario per funzionari birmani, corso che si dovrebbe tenere in ottobre a Sanremo. Una iniziativa assolutamente inaccettabile e inopportuna, che violerebbe nella sostanza la posizione comune europea, (che vieta l'ingresso in Europa di funzionari della giunta militare) e che per altro come previsto sempre dalla Ue avrebbe dovuto essere concordata proprio con l'Ncub e con il governo in esilio.
Oggi i monaci buddisti ci invitano a voltare pagina, ad abbandonare l'indifferenza verso un paese che non è vittima di scontri ideologici, come purtroppo sta avvenendo in altre parti del mondo, sempre sotto i riflettori e l'attenzione politica. I tessitori silenziosi di questa straordinaria pagina di coraggio e di pacifismo ci chiedono responsabilità, attenzione e impegno politico di lungo periodo. Ci chiedono di accompagnare il loro cammino con iniziative di solidarietà, di pressione verso i governi dei grandi e verso le istituzioni internazionali, Onu, Ilo, Ue, l'Asem, l'Omc, ma anche verso le imprese. La premio Nobel per la pace Aung San Suu kyi, il governo birmano in esilio, il sindacato birmano clandestino chiedono da anni, inascoltati, l'interruzione dei rapporti economici e commerciali con questo paese. È ora di cambiare passo anche in questo. Le imprese devono fare un passo indietro e i governi devono convincerle, con gli strumenti che hanno.
Il primo appuntamento è nei prossimi giorni. A New York le diplomazie dovranno fare veramente proprie le richieste delle organizzazioni democratiche di questo paese. A partire da un tavolo negoziale tripartito, sotto l'egida dell'Onu, con tempi certi per la transizione democratica. Liberazione degli arrestati, dei prigionieri politici, del Nobel Aung San Suu Kyi e nel frattempo dovrebbero sostenere con risorse, e con la politica la lotta pacifica, democratica e diffusa, dei lavoratori organizzati nell'Ftub, dei monaci, degli studenti e degli uomini e delle donne birmane. Costruire la democrazia è un processo costoso. È ora che i governi, la Ue dopo anni di decisioni inefficaci e pilatesche diano il loro decisivo contributo.
* Autrice del libro «Il pavone e i generali - Birmania: storie da un paese in gabbia» (Baldini & Castoldi). I diritti d'autore verranno devoluti alle organizzazioni democratiche e sindacali birmane.

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