LETTERE

L'eterna tenzone tra stato e mercato

l'intervento
ROMANO ROBERTO, TAJANI CRISTINA,

La tenzone tra Valentino Parlato e il Sole 24Ore è di quelle importanti e antiche quanto la storia del capitalismo e dell'economia politica stessa. A partire dall'apprezzamento, espresso in un titolo di prima pagina dal prestigioso quotidiano economico, circa l'intervento dello stato britannico nel salvataggio della banca Northern Rock, Parlato invita gli editorialisti del Sole ad un confronto sul ruolo del pubblico in un'economia di mercato. Mai tema fu più dibattuto da quando, agli albori del pensiero politico liberale e dell'economia politica classica, la libertà d'impresa e il libero mercato si costituirono come contropotere rispetto all'assolutismo dell'ancien régime. Oggi c'è da domandarsi se i termini del conflitto non si siano rovesciati e dove alberghi il «potere assoluto» ai tempi della globalizzazione. Detto altrimenti si tratta di tornare a ragionare, con elementi nuovi, sulla relazione tra diritti di proprietà e democrazia.
Fabrizio Galimberti, dalle pagine del Sole (20/09/07), ricorda a Parlato che i padri nobili del pensiero economico avevano ben presente quale dovesse essere il ruolo del pubblico: regolazione della concorrenza, governo della moneta, fiscalità e poco altro. Si tratta di un'idea molto prossima a quella di «stato minimo». Ora il punto rilevante è la relazione tra uno stato siffatto e la democrazia reale. Uno stato che si limitasse a regolare la concorrenza, tassare, redistribuire e governare la moneta (cosa che, grazie a maestri come Graziani, sappiamo non essere socialmente neutrale in un'economia «monetaria» di produzione) dovrebbe comunque porsi il problema della legittimazione politica. Più uno stato declina dalla funzione di «produttore» di beni e servizi sociali per assumere la forma di puro regolatore, maggiori saranno i rischi di incorrere in crisi di legittimazione e di essere «catturato» dalle forze economiche che dovrebbe regolare. La legittimazione di uno stato democratico dipende in buona misura dal riconoscimento dei servizi e dei beni pubblici che questi rende. Si pensi all'amministrazione fiscale: non è con la sola coercizione che il fisco può funzionare in un regime democratico. Occorre che la contropartita in beni e servizi sociali sia collettivamente riconosciuta ed adeguata in termini quantitativi e qualitativi. E con quale autorità potrebbe regolare mercati dominati da soggetti economici paragonabili, per dimensione di prodotto, a nazioni (energia, farmaci, infrastrutture) uno stato che di proprio non fosse in grado di produrre nulla?
Occorre, infatti, domandarsi cosa sarebbero state le società democratiche in Europa se, dal dopoguerra ad oggi, fosse prevalsa l'idea dello «stato minimo», della primazia dei diritti proprietari sui diritti sociali, se non si fossero superati i fallimenti e le imperfezioni del mercato attraverso l'espansione dell'intervento pubblico sul fronte delle entrate e delle spese. Senza la ricerca dell'equità di quello che gli economisti chiamano «scambio fiscale», non è possibile far convivere i diritti proprietari e la libertà dal bisogno, e oggi non potremmo parlare nemmeno di democrazia liberale.
Indubbiamente il ruolo pubblico in economia deve essere ridefinito rispetto al mutato quadro economico (maggiore interdipendenza dell'economia e processo di integrazione europea), ma la scelta deve maturare dentro un orizzonte capace di «re-interpretare» il ruolo pubblico, con tutti i suoi poteri fiscali. Oggi il livello dove ricercare l'efficienza economica nell'erogazione di beni e servizi collettivi, e per questa via legittimare politicamente lo scambio fiscale, si è in parte spostato dai confini nazionali allo spazio europeo. È vero che, anche dopo il contributo di Delors, l'Europa è lontana dall'avere una politica economica nel senso stretto del termine. L'Ue non ha ancora una politica fiscale propria, un bilancio adeguato alla dimensione economica della comunità europea, una politica di spesa e di entrata o di investimenti per sostenere l'economia nel suo insieme. Ma se la crisi di legittimità dell'intervento pubblico in economia ha a che fare con problemi di efficienza da una parte, ma anche di riconoscimento e consenso circa l'utilità che alcuni beni e servizi siano pubblici (dai servizi sociali alle reti ai servizi idrici, etc.), allora lo spazio europeo diventa terreno d'azione obbligato per la ricerca dell'efficienza economica (si pensi all'energia) e del consenso (pensiamo ad uno «zoccolo» di prestazioni sociali di carattere europeo, finanziate a livello sovranazionale).

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