La situazione degli internati negli ospedali psichiatrici giudiziari (Opg) è tanto drammatica quanto relativamente semplice da affrontare. Delle 1266 persone internate oggi nei sei istituti, oltre la metà hanno commesso reati minori e in gran parte si vedono prorogata la misura di sicurezza più per mancanza di alternative che per una condizione di pericolosità sociale.
Per ridurre, in tempi rapidi, di almeno un terzo il numero degli internati basterebbe utilizzare leggi e strumenti amministrativi che esistono da tempo e che sono, in sintesi, di tre tipi. Innanzi tutto le sentenze della Corte Costituzionale che consentono, quando si accerti che la pericolosità sociale è cessata, sia di ridurre la durata della misura di sicurezza che di utilizzare misure diverse dall'invio automatico in Opg. Ci sono poi le leggi regionali di attuazione della «180», le quali prevedono strutture di vario tipo per accogliere anche persone che abbiano bisogno di assistenza costante.
Far funzionare queste strutture, che in certe regioni sono insufficienti ma in altre semplicemente «evitano» di farsi carico delle persone finite in Opg, può metter fine all'iniquità delle proroghe per mancanza di alternative. Ci sono infine le norme del 1998 e '99 sul passaggio della sanità penitenziaria al Servizio Sanitario Nazionale, che responsabilizzano in modo chiaro Asl e Regioni sulla salute dei detenuti (di questo si è parlato diffusamente su queste pagine il 22 agosto).
Non sono necessarie risorse economiche aggiuntive per fare tutto questo: è sufficiente formulare, Asl e amministrazione penitenziaria insieme, progetti individualizzati con la previsione dei cosiddetti «budget di cura» che trasferiscano risorse dall'Opg alla Asl che si prende cura del «suo» cittadino malato. In alcuni (pochi) luoghi questi strumenti sono già utilizzati, e questo spiega l'enorme variabilità nella provenienza degli internati. E' noto, ad esempio, che da due regioni con il medesimo numero di abitanti, Friuli-Venezia Giulia e Sardegna, proviene il numero rispettivamente più basso e più alto di internati, mentre l'Opg di Barcellona Pozzo di Goto (Messina), che è il solo a ricevere internati in maggioranza della propria regione, è quello dove si verifica il numero di proroghe più alto. Se non si vuole ricorrere alle valutazioni del positivismo ottocentesco sui sardi e i siciliani, si deve concludere che il problema sta nei servizi, nelle politiche regionali, nelle inerzie più o meno colpevoli da parte della magistratura e delle Asl.
La Sardegna è finora la sola regione che, dopo aver rifiutato il progetto di accogliere un nuovo Opg, ha cominciato a riprendersi i propri cittadini internati, ma dal centro, dal governo, non è ancora arrivato alcun impulso in questo senso. Eppure l'Unione si era espressa chiaramente. Nel famoso lungo testo su cui si è chiesto il consenso degli elettori, sono inserite infatti alcune affermazioni qualificate in tema di Opg: «Il tentativo ricorrente di ritorno al passato e di ri-manicomializzazione della salute mentale va respinto applicando per intero la legge 180. Siamo per il superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari e di ogni altra forma di manicomialità». Ma non si è visto, finora, alcun intervento per tradurre in pratiche questa enunciazione.
Nei mesi scorsi qualcosa era sembrato muoversi, suscitando per la verità più preoccupazioni che speranze. Il 6 novembre dello scorso anno, infatti, aveva presentato i suoi risultati il «gruppo di lavoro per i problemi degli Opg» istituito nel 2004 dal governo Berlusconi. Il documento prevedeva una prima fase di interventi per decongestionare gli Opg utilizzando gli strumenti normativi appena citati. Le prospettive di medio e lungo periodo ipotizzate dal documento erano però di ben altro orientamento, perché al posto degli attuali Opg proponeva: 300 posti letto in tre Opg e 200 in centri di psichiatria penitenziaria gestiti dall'amministrazione penitenziaria; 300 letti in centri diagnostico terapeutici di 15 letti ciascuno distribuiti in tutte le regioni; 500 posti letto in «strutture residenziali ad Alta Intensità terapeutica e media sicurezza» nelle varie regioni; 500-1000 posti letto in «strutture residenziali a Media Intensità terapeutica e bassa sicurezza», anch'essi gestiti dalle Asl.
In sostanza: si prevedeva non solo il raddoppio dei circa 1.200 letti degli attuali Opg, ma si attribuiva alle Asl e alle strutture psichiatriche, in contraddizione con quanto disposto dalla «180», sia il controllo di quote di pericolosità sociale che la responsabilità di custodire persone pericolose. Insomma, la riforma degli Opg diventa un modo per far rinascere il dispositivo della «cura-custodia» e l'ospedale psichiatrico in formato ridotto.
Perché preoccuparsi oggi delle proposte di una Commissione del vecchio governo che ha concluso i suoi lavori? Per almeno due ragioni. Facevano parte della Commissione, oltre ai direttori degli Opg di Aversa, Napoli e Barcellona Pozzo di Gotto, due dirigenti sanitari della Campania e il direttore del servizio salute mentale dell'Emilia Romagna, regioni ambedue amministrate dal centro sinistra. E questo può forse spiegare come mai le idee di questa Commissione, ripresentate da un dossier del Sole-Sanità il 9 aprile 2007, siano state riproposte dal consulente della ministra della salute Livia Turco, lo psichiatra Marco D'Alema, che ha illustrato al Corriere della Sera del 19 aprile 2007 «le tre fasi del superamento degli attuali istituti» con l'obiettivo finale di «regionalizzare gli Opg, che devono diventare strutture piccole, a carattere prettamente sanitario, dove l'elemento penitenziario viene ridotto al minimo, e dove saranno ricoverati solo i casi più gravi».
Il dibattito su cosa mettere al posto degli attuali Opg dura da più di trent'anni. Da una parte (e non è questione di destra e di sinistra) vi è quest'idea di distribuire a livello regionale strutture di cura che, come era il caso degli ospedali psichiatrici, devono assicurare anche la custodia. Difficile credere - è questa l'obiezione principale - che in strutture di questo tipo la cura vincerà sulla custodia, che non verranno travestite come pericolosità sociale le condizioni di vita disperate, che l'offerta di strutture di internamento non moltiplicherà una domanda di esclusione mai venuta meno.
L'alternativa, praticata sistematicamente in alcuni (pochi) luoghi, può essere percepita come crudele: si tratta infatti di restringere in modo rigorosamente eccezionale il riconoscimento di infermità totale e di far seguire, alla gran parte delle persone che commettono reati in condizioni di sofferenza mentale, i percorsi ordinari. Questi percorsi non necessariamente conducono alla detenzione, e quando questa non sia evitabile, i servizi di salute mentale seguono le persone malate anche in carcere, dove si deve assicurare la cura della malattia mentale come delle altre, o si deve valutare, caso per caso, la compatibilità tra cura e detenzione. Certo, sappiamo tutti cosa è il carcere oggi, per chi è malato e anche per chi è sano. Ma se la nostra democrazia non è capace di avere carceri decenti come possiamo pensare che lo saranno le strutture di internamento, ancora più opache del carcere e più esposte al rischio di arbitrii?
Una via d'uscita da questo dibattito polarizzato da troppo tempo si potrebbe trovare se questo governo cominciasse finalmente a impegnarsi per decongestionare gli Opg, operazione che sanerebbe tante iniquità e chiarirebbe come e da dove si arriva in Opg, quali strategie possono modificare questi percorsi, quante strutture possono servire in alternativa, di che tipo e per chi. Questo si può fare subito, non servono leggi nuove. Serve la scelta politica di non vivacchiare sull'esistente ma di promuovere e guidare quei processi di trasformazione che, nel caso degli Opg, la legislazione ha già ampiamente innescato.