INTERNAZIONALE

Ballottaggio tra due destre, il Guatemala punisce Rigoberta

BERETTA GIANNI,

Sarà il ballottaggio del prossimo 4 novembre a decidere il futuro presidente del Guatemala, fra il moderato Alvaro Colom dell'Unione nazionale della speranza (al 28,5%) e l'ex generale Otto Perez Molina dell'ultradestro Partito patriottico (al 23,5%). E' la terza volta che Colom corre per le presidenziali, e stavolta potrebbe essere quella giusta: perlomeno se prevarrà fra gli altri candidati e formazioni escluse (in particolare il partito della destra moderata al governo dell'uscente Oscar Berger) la volontà di scongiurare che questo paese finisca nuovamente nelle mani tout-court di un (seppur ritirato) militare. In ogni caso nessuno dei partiti menzionati avrà la maggioranza in parlamento, e si profila l'ennesimo mandato con alleanze impossibili e conseguente paralisi istituzionale.
Fra coloro che non hanno avuto accesso al ballottaggio c'è Rigoberta Menchù, che ha raccolto un magro 3% dei consensi. Viene da chiedersi come mai, con l'ondata di presidenti indigeni nei paesi andini degli ultimi anni (pur talvolta deludenti) la Nobel per la pace non abbia fatto breccia in una nazione dove almeno metà della popolazione è diretta discendente dei maya. Innanzitutto è da premettere che Rigoberta (come commentò in una conversazione con il manifesto dello scorso anno, in cui preannunciava la sua entrata diretta sulla scena politica) con queste elezioni intendeva lanciare il proprio movimento indigeno Winaq in vista di quelle del 2011. Poi l'emergenza politico-istituzionale l'ha indotta a presentarsi per la coalizione Incontro per il Guatemala, che ha una certa forza solo nella capitale grazie al lavoro della (rieletta) deputata Nineth Montenegro, fondatrice negli anni '80 del Gruppo di appoggio mutuo (Gam) per la ricerca dei desaparecidos. La Nobel ha inteso dunque fin dall'inizio questa partecipazione come «un'accumulazione di forze per il futuro». Anche se dovrà partire praticamente da zero, visto che ha ottenuto appena 4 deputati di cui una sola (Otilia Lux) di Winaq, oltre a due o forse tre sindaci.
Rigoberta ha potuto contare su scarsissimi mezzi e visibilità mediatica rispetto ai suoi avversari. Oltre a rifuggire da pratiche di compravendita del voto assai diffuse fra la popolazione povera in un paese dove le elezioni sono viste sempre più come un mezzo di scambio (qualche golosina, due lamine per il tetto, una manciata di quetzales). In più, doveva avere un bel coraggio chi si presentava nella sua formazione, soprattutto nelle zone rurali. Non è un caso che la maggior parte della cinquantina di vittime dell'inusitata violenza politica di questa contesa democratica si siano registrate tra le sue fila: un campanello d'allarme all'indomani della certificazione - da parte di una commissionje dell'Onu - del genocidio di 190.000 indigeni.
Rigoberta era poi la prima candidata donna-indigena in un continente machista e storicamente razzista nei confronti delle popolazioni autoctone, superstiti della conquista. Con una oligarchia bianca e una casta dei militari che (salvo l'esperienza democratica di Jacobo Arbenz, rovesciato nel 1954 dalla Standard Fruit) hanno tenuto da sempre a ferro e fuoco le comunità indigene, e che odiano ferocemente Rigoberta. A partire dall'ex dittatore Efrain Rios Montt, rieletto nuovamente deputato e paradossalmente sostenuto proprio nelle aree indigene dove ha perpetrato i suoi massacri. Dal punto di vista politico, poi, Rigoberta ha forse pagato un prezzo per essersi smarcata da una sinistra tradizionale allo sbando, con i due comandanti superstiti della ex guerriglia che, in un delirio personalista, si sono candidati ciascuno per proprio conto (solo la Urng ha ottenuto due deputati).
Qualcuno le rimprovera di essersi fatta cooptare o comunque di aver ottenuto scarsi risultati dal suo coinvolgimento come ambasciatrice della pace «indipendente» del governo di Oscar Berger. Fino ad arrivare all'accusa di avere «moderato» eccessivamente il proprio discorso, anche con la scelta del suo candidato a vice-presidente, il coltivatore di caffè Fernando Montenegro, ex presidente della confindustria locale. Ma in Guatemala non è all'ordine del giorno alcun cambio radicale, bensì il tentativo disperato di rimettere questo paese nei binari di un minimo di civiltà. Se stai a guardare dalla finestra sei considerato un grillo parlante, se invece opti per impegnarti in prima linea (alleandoti con i pochi democratici presentabili) rischi di uscire triturato. Niente di più facile per i poteri forti di alimentare l'apatia, il fatalismo e il senso di impotenza dilagante nella popolazione, fagocitando la violenza e il senso di insicurezza, per poi promettere «mano dura», come ha fatto il generale Perez Molina nella sua campagna.
Ma c'è anche un'ulteriore peculiare difficoltà per Rigoberta a crescere nei consensi, tutta interna al complesso mondo maya. In Guatemala sono 23 le etnie, con la stessa radice ma che quasi devono impiegare lo spagnolo per intendersi. E Rigoberta è una quichè, il gruppo etnico che un tempo stava sopra tutti gli altri. Non è un caso che nel 1992 l'attribuzione del Nobel per la pace ebbe scarso impatto nelle aree indigene, con qualche sacerdote maya del «triangolo» Ixil a commentare sarcastico come fosse «prestigioso» quel riconoscimento «internazionalmente», ma verso una persona che «ormai da tempo vive lontana dal Guatemala e dalle condizioni di vita della sua gente». In effetti Rigoberta, sistematicamente minacciata di morte, ha tardato molto tempo a giocarsela a tempo pieno nel proprio paese. E all'inizio infastidì che alternasse il proprio huipil colorato, con quello delle altre etnie. Così come c'è chi l'ha malignamente criticata per il cosiddetto business della sua rete di farmacie popolari (a prezzi ridottissimi).
Negli ultimi anni Rigoberta Menchù ha fatto un salto, è cresciuta politicamente e (come ci disse in quell'intervista) si è emancipata da quel freno che la induceva a non lanciarsi nella battaglia politica, per non essere rimproverata ogni volta di eccesso di protagonismo. Ma il suo movimento Winaq, per crescere, avrà bisogno di tempo e di molto lavoro sul terreno per superare invidie e diffidenze.

Supporta il manifesto e l'informazione indipendente

Il manifesto, nato come rivista nel 1969, è sinonimo di testata libera, indipendente e tagliente.
Logo archivio storico del manifesto
L'archivio storico del manifesto è un progetto del manifesto pubblicato gratis su Internet e aperto a tutti.
Vai al manifesto.it