LETTERE

Scuole pubbliche e private, la concorrenza non paga

l'opinione
ACOCELLA NICOLA,

Recita l'articolo 33 della Costituzione italiana: «Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato».
Come può allora un ministro di stato asserire che i fondi alle scuole private possono arrivare sulla base della loro semplice esistenza?
In realtà, il sistema attuale già indulge agli incentivi alla scuola privata attraverso vari sistemi, come quello dei voucher. Dal 2000 esistono due tipi di buoni scuola.
Un primo tipo è finanziato direttamente dallo stato e è praticamente irrilevante negli importi pro-capite per le famiglie, ma non per le casse pubbliche. Un secondo tipo, con importi pro-capite decisamente più elevati, è finanziato da alcune regioni.
E' ampiamente documentato che, con la parziale eccezione delle regioni Emilia Romagna e Toscana, questo tipo di voucher, pur favorendo formalmente le famiglie relativamente poco abbienti, si risolva in un'integrazione di reddito di famiglie con redditi medio-alti e non tenga in nessun conto il merito degli studenti. Soltanto in piccola parte finora questo tipo di voucher si è tradotto in un aumento dei profitti delle scuole private e pertanto nella sostanza la violazione della Costituzione è stata marginale.
Si può pensare che le dichiarazioni del ministro Giuseppe Fioroni siano motivate dall'idea che la scuola italiana abbia bisogno attualmente di una buona dose di concorrenza per superare le inefficienze e le iniquità che la caratterizzano. Il problema dovrebbe essere più ampiamente dibattuto prima di procedere decisamente su questa strada.
In particolare, la concorrenza fra pubblico e privato può essere foriera di esiti assolutamente negativi sul piano proprio dell'efficienza e dell'equità, nonché per i risvolti che essa può avere sulla coesione sociale.
Sul piano dell'efficienza le posizioni di eccellenza che vanno riconosciute a alcune (poche) scuole private (come a alcune, poche, scuole pubbliche) sono difficilmente replicabili, almeno nel medio periodo. Inoltre, il meccanismo di «uscita» dalla scuola pubblica, affievolirebbe la «voce» (ossia, l'interesse e la partecipazione dei politici e delle famiglie al funzionamento della scuola pubblica stessa) e ridurrebbe quella varietà di esperienze, capacità e posizioni che arricchisce l'apprendimento (e favorisce la coesione sociale).
Infine, l'efficienza della scuola pubblica potrebbe addirittura peggiorare, per l'esistenza di costi fissi e di possibili capacità inutilizzate.
Dal punto di vista dell'equità, le conseguenze di una maggiore concorrenza fra scuole private e scuole pubbliche stimolata da incentivi pubblici alle prime si tradurrebbe semplicemente in una redistribuzione perversa (ossia, a danno del contribuente medio e a favore delle famiglie con redditi medio-alti). Sul piano della coesione sociale, vanno enfatizzate la possible accentuazione della stratificazione sociale dovuta alla formazione di ghetti, la riduzione della tolleranza e della mobilità intergenerazionale, la crescita del fondamentalismo ideologico.
La nostra scuola non ha bisogno di più incentivi alla concorrenza, ma di maggiore attenzione ai suoi problemi strutturali, e questi hanno a che fare con la serietà della selezione degli insegnanti, degli incentivi e dei disincentivi per essi e per gli studenti, delle dotazioni scarse e antiquate.
* Dipartimento  di Economia Pubblica Università degli Studi di Roma
«La Sapienza»

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