Difficile dire se il Presidente Bush, nel suo discorso di Kansas City dell'altroieri, avesse idea di cosa stava dicendo quando ha parlato della guerra di Corea e del giornalista I.F. Stone (da non confondersi con Sharon Stone, che nel 1950 non era ancora nata). Bush ha affermato che nel 1950, Harry Truman fece bene a difendere la Corea del sud attaccata dal Nord, benché gli stessi repubblicani fossero esitanti e I.F. Stone sostenesse che «l'invasione» era soltanto un pretesto.
In effetti, Stone fu praticamente il solo giornalista a sfidare la censura imposta dal generale MacArthur e a denunciare il massacro di civili usando il napalm, un crimine che poi si sarebbe ripetuto su larga scala in Vietnam. In realtà, Stone non era affatto l'unico a criticare Truman: lo stesso deputato del Nebraska Howard Buffett (padre del miliardario Warren Buffett) spiegò che Truman aveva fatto entrare in azione le truppe americane il 27 giugno 1950, 11 ore prima che il Consiglio di Sicurezza dell'Onu ne facesse richiesta.
Ma il problema più grave era altrove: Stone, Buffett e altri volevano che il Congresso si assumesse la responsabilità di dichiarare guerra, come imposto dalla Costituzione, invece di mettere nelle mani del presidente il potere di impegnare truppe all'estero senza controllo. All'epoca Buffett, un repubblicano, ribadì che «anche se fosse desiderabile, l'America non è abbastanza forte per fare il poliziotto del mondo, senza contare che in questo tentativo, la nostra libertà sarebbe sostituita dalla coercizione e dalla tirannia». Bush ha quindi trovato un pessimo esempio citando proprio il primo caso di una lunga e impopolare guerra in cui gli Usa si impegnarono in violazione delle procedure previste dalla loro Costituzione.
Ma Bush, nel suo discorso, ha fatto anche di peggio paragonando il ritiro dal Vietnam a quello dall'Iraq e suscitando aspre polemiche in cui senatori democratici come John Kerry e storici di professione come David Hendrickson lo hanno accusato di riscrivere la storia. Parlando dei boat people e dei massacri di Pol Pot, il presidente americano ha omesso di ricordare che i kmer rossi non sarebbero mai andati al potere se non ci fosse stata l'invasione americana della Cambogia nel 1970. Non solo: dopo l'intervento militare dei vietnamiti per mettere fine al genocidio, gli Stati Uniti cosa fecero? Forse che applaudirono in nome delle ragioni umanitarie ben reali in quel caso? Per nulla. L'amministrazione Carter, e poi Reagan, sostennero diplomaticamente e militarmente Pol Pot nella sua guerriglia contro i vietnamiti.
Quanto ai profughi vietnamiti fuggiti all'estero o imprigionati, Bush ha omesso di ricordare che il loro numero non è mai stato più di una frazione degli oltre 3 milioni di caduti, in gran parte civili, che il Vietnam soffrì a causa dell'invasione Usa, la maggioranza dei quali proprio dopo l'inizio del ritiro delle truppe. Il disimpegno dalla guerra, infatti, iniziò già nel 1968, dopo l'offensiva del Tet, e si prolungò fino al 1973: fu in questo periodo che gli stessi americani subirono le maggiori perdite (10.000 morti nel solo 1969) oltre a infliggere enormi danni al teatro dei combattimenti attraverso un maggior ricorso all'aviazione.
In realtà il discorso di Bush suonava come un esorcismo della sconfitta che, 35 anni dopo, brucia ancora. Sono stati proprio i repubblicani a elaborare la tesi di una guerra che si sarebbe potuta vincere in pochi mesi, magari «trasformando l'intero Vietnam del nord in un parcheggio», come disse Ronald Reagan: «È tempo di mostrare il nostro orgoglio per coloro che combatterono in Vietnam... Sono tornati a casa senza una vittoria non perché siano stati sconfitti ma perché fu negata loro la possibilità di vincere».
La realtà fu completamente differente: gli Stati uniti persero la guerra perché non erano in grado di sostenerne il costo militare: dopo il Tet ci fu un progressivo crollo nel morale delle truppe di terra, con innumerevoli casi di diserzione (il 20% dei richiamati), di rifiuto di combattere, di autolesionismo: qualsiasi cosa pur di tornare a casa. Nel solo 1970 disertarono 65.643 soldati e i generali dovevano fare i conti con centinaia di casi di fragging, il lancio di bombe a mano contro le tende degli ufficiali che mettevano a rischio la vita dei propri uomini.
Soprattutto, la guerra stava mettendo a dura prova il bilancio federale, creando inflazione e danneggiando l'economia americana. Per questo, dopo il 1968 si iniziarono a confrontare costi e benefici e l'amministrazione Nixon decise a favore il ritiro dopo un «decente intervallo» (fu terminato nel 1973). Esattamente ciò che George W. Bush sta cercando di ottenere in Iraq: un decente periodo di tempo prima che la guerra venga definita «perduta», preferibilmente dal suo successore.