VISIONI

Quando la vita ti prende a deliziose torte in faccia

CATACCHIO ANTONELLO,Locarno

Il cinema è la morte al lavoro 24 fotogrammi al secondo, diceva Godard. Certo che questa edizione di Locarno, che proprio a Godard ha dedicato una sezione con il titolo del suo film Ici et Ailleurs, sembra particolarmente segnato da quella frase che coniugava insieme morte e cinema, seppure intendesse sottolineare il passaggio del tempo. Michel Serrault, Ingmar Bergman, Michelangelo Antonioni, Isidore Isou sono scomparsi a inizio festival, lasciando un grande vuoto nonostante la loro età; poi ha colpito i partecipanti la morte improvvisa di Pierre Todeschini, animatore del festival di Annecy. E ieri sera anche i due titoli della piazza, oltretutto azzerata dalla pioggia (quindi con proiezioni al palazzetto Fevi) sono stati segnati dal vuoto lasciato dai registi. Si tratta di Yi Yi di Edward Yang, premiato a Cannes qualche anno fa, omaggio-sorpresa al maestro di Taiwan scomparso il mese scorso e Waitress di Adrienne Shelly di cui raccontiamo in questa pagina la tragica fine.
Inevitabile quindi che un velo malinconico abbia accompagnato la proiezione del film di Shelly, che oltretutto ha anche un ruolo importante come interprete, nonostante la produzione abbia puntato a un profilo basso sulla questione. Solo al termine dei titoli di coda, in cui scopriamo che anche la canzoncina finale è opera sua, appare una scritta che dice «in loving memory» con il nome di Adrienne Shelly, nulla più.
Con Waitress siamo nel sud degli Stati Uniti, una cittadina con un simpatico locale di periferia dove tre cameriere portano sui vassoi gli ordini dei clienti e metaforicamente consegnano anche le loro vite. C'è la bionda non più giovanissima, con marito handicappato a casa e qualche trasgressione per sopravvivere, c'è l'occhialuta Dawn (interpretata da Shelly) perennemente a caccia dell'anima gemella che alla fine accetta la corte di un tontolone che improvvisa puerili poesie, ma almeno dimostra di essere davvero perso per lei; infine, c'è la protagonista Jenna (Kery Russell), a cui si deve anche il successo del locale, grazie alle magnifiche torte che confeziona. Oltretutto contraddistinte da nomi bizzarri che riflettono la situazione in cui sono state concepite. Jenna però ha un cruccio. Doppio. È sposata con un individuo che non diventa eccessivamente violento solo perché il racconto prenderebbe una piega diversa dalla commedia in technicolor esasperato, poi è rimasta incinta dopo che lui l'aveva fatta ubriacare per poter fare sesso, altrimenti negato. Nonostante non abbia alcun senso materno, anzi ne dice di tutti i colori all'alieno che si è insinuato nella sua pancia, e rifiuta le congratulazioni di rito, non prende in considerazione altre possibilità.
Diventerà madre controvoglia, con il sogno di vincere un concorso di torte e impiegare il premio per mollare il marito e aprire un suo locale. Sulla sua strada trova invece il nuovo ginecologo della cittadina, e le visite di controllo si trasformano in amplessi appassionati, all'insegna di una comicità quasi farsesca. Anche perché Earl, il marito, è gelosissimo e il suo clacson risuona continuamente per richiamare quella che ritiene sia una sua proprietà. Lo stesso Earl che, saputa la notizia della paternità, si è preoccupato solo di far giurare a Jenna che continuerà a amarlo più del pargolo in arrivo.
Waitress è un racconto di perdenti, di gente che conosce la dichiarazione di indipendenza in cui è scritto che ognuno ha diritto alla ricerca della felicità, ma c'è anche la consapevolezza che a qualcuno spettano solo frammenti di quella possibilità. Tocca accontentarsi. Di un briciolo di passione strappata nello studio del ginecologo, felicemente sposato, nella tenerezza infantile di un uomo sciocco ma innamorato, nei brividi di un cuoco di poche parole, quasi sempre scorbutiche.
Si può anche ribaltare il senso delle cose. Per esempio il libro diario che Jenna riceve e dove dovrebbe segnare con tutte le faccende legate alla sua gravidanza sino al lieto evento, diventa in realtà un epistolario in cui scrive infinite lettere alla creatura che ha in grembo, non sempre all'insegna del maternamente corretto. È uno spaccato triste, raccontato però come se fosse una favola che deve avere un lieto fine. Perché lo sguardo di Shelly regista e sceneggiatrice è complice della sua ragazza e delle amiche e colleghe. C'è tutta la consapevolezza di una realtà desolante, stemperata però dalla voglia di strappare un sorriso e magari di strapparle, almeno nella finzione dell'intrattenimento, a un destino che appare segnato e inamovibile. Quando poi tutto si chiude con quel «in loving memory» il racconto si trasforma in una sorta di testamento ideale, perché il cinema non può cambiare il mondo, ma forse può aiutare a viverlo meglio.

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