Quando alla Cia si verifica qualcosa di inatteso che richiede una soluzione, la frase non è «abbiamo un problema», bensì «abbiamo una situazione». Questa è la terminologia, almeno a giudicare da The Bourne Ultimatum, terzo episodio della serie tratta da Robert Ludlum, di nuovo diretto da Paul Greengrass, mentre Doug Liman, il regista del prototipo The Bourne Identity, ha svolto di nuovo il ruolo di produttore esecutivo. Jason Bourne è l'agente segreto programmato per uccidere con trattamento apposito, ha perso la memoria e cerca in tutti i modi di venire a capo della sua situazione. Lui vuole sapere chi sia, la Cia lo vuole morto. Un duello che parte da Mosca, si sposta a Londra, Parigi, Tangeri, Madrid per chiudersi a New York. Difficile mantenere la sorpresa del primo film e l'idea del secondo, quindi si è puntato sulla jamesbondizzazione di Bourne, con l'esclusione delle avventure con ragazze mozzafiato. Matt Damon è un demone infuriato, ne combina di tutti i colori uscendo sempre indenne da qualsiasi situazione (nonostante la Cia sfoderi tutta la sua tecnologia e il suo cinismo per stenderlo). In realtà due donne lo assistono. Joan Allen piazzata democraticamente all'agenzia per contrastare i metodi sbrigativi di David Strathairn e del capo Scott Glenn, e Julia Stiles che lascia intuire come tra lei e lo smemorato ci possa essere stata una storia d'amore annegata nell'oblio che attanaglia Jason. Tra le sequenze più riuscite quella che si svolge nella metropolitana di Londra dove Jason incontra un giornalista di «The Guardian», autore di un articolo scottante, mentre un cecchino è appostato e quella nella medina di Tangeri con inseguimento multiplo, mentre sono più fracassone, automobilistiche e troppo sopra le righe quelle newyorkesi. Matt Damon ha dichiarato che, per lui, questo sarà l'ultimo episodio. ma il finale lascia intuire nuovi sviluppi, magari con una nuova identità per Jason-David.
Ma il sabato sera nella piazza locarnese non si è fermato alla prima mondiale di The Bourne Ultimatum. A seguire infatti, di fronte a migliaia di spettatori, il nuovo documentario di Alina Marazzi, Vogliamo anche le rose (distribuzione Mikado, data ancora da definire). Di nuovo coproduzione italosvizzera per Alina, come era accaduto con Un'ora sola ti vorrei, presentato con grande successo qualche anno fa a Locarno, prima di iniziare una strada seminata di premi e di consensi. Vogliamo anche le rose è un film di montaggio (materiali Rai scelti con magnifica certosina pazienza e cura) che ripercorre una ventina d'anni di storie femminili italiane, sulla scorta di tre diari (autentici). La milanese Anita racconta la sua difficile emancipazione come ragazzina succube di un padre oppressivo, la pugliese Teresa vive il dramma di un aborto clandestino e la romana Valentina il dilemma di una femminista divisa tra amore e militanza. Tre storie, poi alla fine una cronologia. La spiega la stessa Alina: «è succinta, ma mi colpiscono le date, che non sono di molto tempo fa. Colpisce leggere che solo nel 1980 sia stato abolito il delitto d'onore, o la fin della proibizione della pillola». C'è un filo che lega Un'ora sola ti vorrei, Per sempre e questo nuovo documentario, «sono tre lavori diversi di scelte femminili radicali» dice Alina che poi spiega anche la scelta dei nomi delle tre ragazze «essendo connotate geograficamente, avevo bisogno di accenti e ho scelto la romana Valentina Carnelutti perché ha una voce stupenda. Teresa Saponangelo napoletana di origine pugliese e Anita Caprioli, milanese. Poi, dovendo scegliere degli pseudonimi abbiamo optato per i nomi propri delle attrici». Una delle chiavi vincenti che rendono appassionante il racconto è costituito dall'animazione «sono cuciture mobili, l'animazione è una mia passione, consente di comunicare in tempi brevi libere associazioni visionarie, mi ricordavo i lavori di Cingoli. Così è nata l'idea di coinvolgere Cristina Serendino che si è occupata della parte grafica, utilizzando anche fotoromanzi di Grand Hotel». E l'operazione acquista così uno spessore che aggancia lo spettatore e lo induce a pensare quanto fossero vicini quei tempi. Infine Dario Fo che si presenta sin dal titolo del film presentato Io non sono un moderato. regia di Andrea Nobile. Si tratta del pedinamento di Dario nell'arco di un paio di mesi, quando si era presentato candidato sindaco alle primarie dell'Unione a Milano. Tentativo, non riuscito di contrastare «la follia di una sinistra ch si avvicinava alla destra anziché i problemi delle persone», dice Dario. Che chiude dicendo «per fare un palazzo ci vogliono tanti mattoni», lui forse ha messo la prima pietra.