Il palinsesto di un festival è un invito alla schizofrenia, alla dissociazione geografica, temporale, culturale, linguistica. Può così succedere di essere trasportati per un viaggio nella zona di Los Angeles da un Anthony Hopkins regista quasi psichedelico con Slipstream e subito dopo attraversare invece la zona dei monti Aurès in Algeria a cavallo di un minitrattore incontrando personaggi che parlano berbero come nel film La maison jaune di Amor Hakkar. Due film agli antipodi, entrambi in concorso.
Cominciamo con Hopkins. Alla sua terza regia, dopo Dylan Thomas e August (da Chechov), l'attore di origine gallese si mette alla prova con un film spiazzante che tende a rompere le convenzioni per raccontare i cortocircuiti dell'animo umano seguendo la traccia della produzione di un b movie indipendente. E a questo proposito ha voluto sottolineare: «Abbiamo preferito venire qui invece che alla Festa del cinema di Roma, che aveva chiesto il film, perchè Locarno è particolarmente indipendente». Hopkins, sceneggiatore, regista, autore delle musiche, quasi montatore, è anche interprete nei panni di Felix Bonhoffer, uno sceneggiatore che comincia a perdere le coordinate, la realtà fattuale e quella immaginaria dei film che ha scritto, ma anche di quelli che ha visto, si confondono e si sovrappongono. Un po' come avviene nel dormiveglia quando figure immaginarie tendono a diventare reali e viceversa. Felix parla con gli animali, che rispondono, fa incontri stravaganti, come quello con Kevin McCarthy, protagonista del mitico L'invasione degli ultracorpi, oggi ultranovantenne. Una citazione fantasy quindi, che si sposa con il titolo del film, Slipstream che letteralmente sta a significare lo spostamento d'aria, la turbolenza ch si verifica per esempio quando si supera il muro del suono, ma è anche un neologismo coniato da Bruce Sterling per indicare il sovrapporsi di diversi piani narrativi nella fantascienza.
E così Hopkins ha scritto il film seguendo un flusso che sembrava sgorgare spontaneo, sia quando ha scelto il nome del protagonista Felix Bonhoffer, che rievoca Dietrich Bohnoffer (sacerdote, oppositore del nazismo, e la copertina di una sua biografia appare su un leggìo), che nell'intreccio in cui si cita il sogno in un sogno di Poe (anche questa citazione arrivata casualmente da un attore). Inconscio al lavoro quindi, con i frammenti di storia (da Hitler a Nixon, dal Vietnam a Abu Ghraib, ma anche da Bette Davis a Marilyn, da James Dean a Fellini) che si insinuano nella storia, fotografata da Dante Spinotti e interpretata, tra gli altri da uno smagliante John Turturro in veste di produttore cialtrone e da Christian Slater in doppio ruolo da killer psicopatico e poliziotto. Il tutto consegnato a Michael Miller per un montaggio di immagini che sembrano flash di memoria sparati in successione con risultati imprevedibili.
Se Sir Anthony ha dovuto pazientare per produrre il suo film, alla fine lo ha fatto grazie a sua moglie, Stella Arroyave (che interpreta ruolo analogo nel film), e soprattutto a Robert Katz, Amor Hakkar ha impiegato tre anni da quando ha scritto la sceneggiatura di La maison jaune, prima di vederlo realizzato. Una storia semplice (verrebbe quasi da dire Una storia vera per le analogie con il lavoro di Lynch), una famiglia contadina tra i monti Aurès riceve la notizia che il primogenito, militare, è morto in un incidente. È una bomba disperante che si abbatte sulla modestissima casa e Mouloud si mette in marcia per andare a recuperare il corpo del figlio. Sono 150 chilometri da percorrere su una Lambretta, come viene chiamata, in realtà è un piccolissimo e scassato trattore a quattro ruote che trascina un carretto. Per sua fortuna gli incontri che fa lungo il tragitto sono tutti positivi: un poliziotto gli dà un faretto per viaggiare al buio, un tassista gli legge la lettera e gli fa da battistrada verso l'indirizzo giusto, l'addetto alla morgue lo insegue per consegnargli tutti i documenti in regola, un meccanico gli sistema la Lambretta, l'imam improvvisa un preghiera. Insomma, tutto il viaggio è all'insegna di rapporti umani che altrove sembrano smarriti. Ma la ferita è profonda e rimane, soprattutto per la moglie che sembra avere perso ogni voglia di vivere. E allora Mouloud cerca ogni strada possibile, compreso il tinteggiare la casa di giallo, per non perdere anche lei. Un lavoro naif, che ha entusiasmato il pubblico proprio per la sua umana semplicità ai limiti dell'ingenuità.
Non è ingenuo, anzi è un abile orchestratore di storie e intrecci Samuel Benchetrit che ha firmato J'ai toujours rêvé d'être un gangster (in piazza). Bianco e nero con cafeteria da infinite citazioni cinematografiche, crocevia di storie diverse all'insegna di furti, rapine, rapimenti tutti all'insegna della sfiga che vira verso il comico. Film corale quindi con Anna Mouglalis cameriera e tra i diversi esilaranti avventori Jean Rochefort e Laurent Terzieff.