In Italia il rapporto tra fotografia e concettualità è segnato da due opere memorabili degli anni Settanta: l'Esposizione in tempo reale n. 4 di Franco Vaccari (presentata alla Biennale di Venezia nel 1972) e le Verifiche di Ugo Mulas (esposte a quella del '74, un anno dopo la morte dell'autore). Entrambe centrate sul disvelamento dei meccanismi del discorso fotografico e spesso considerate in parallelo, esse provengono da programmi diversi e in certo senso inconciliabili. Per Mulas, neorealista negli anni Cinquanta, intelligente fotografo della scena pop americana e di artisti come Fontana e Duchamp, le Verifiche furono un estremo tentativo di indagare le variabili operative dalla fotografia intesa come forma di rappresentazione, allo stesso modo in cui Antonioni, in film come Blow-up o Professione: reporter aveva esplorato la falsa (seppur avvincente) obbiettività della registrazione fotografica.
Per Franco Vaccari - fisico di formazione e legato alla neo-avanguardia del Concettuale, della Narrative Art, del Comportamentismo - la fotografia è soprattutto un processo comunicativo e sociale: un esperimento che all'autore compete di avviare, occultando il più possibile la propria presenza e demandando al pubblico il rischio di una possibile interpretazione, che è interrogazione non dell'opera ma di sé e del reale.
Se le Verifiche erano, e restano, oggetti di contemplazione e di meditazione nello spazio algido della mostra d'arte, l'Esposizione in tempo reale del 1972 (intitolata Lascia su queste pareti una traccia fotografica del tuo passaggio) invitava gli spettatori della Biennale a scattarsi una foto-tessera con una macchina automatica installata in sala e ad affiggerla su un muro, contribuendo a un moderno mosaico collettivo dal disegno imprevedibile: un procedimento interessato ai risvolti antropologici della fotografia più che alla sua ontologia.
Nato nel 1936, poeta visivo, fotografo, video-artista, critico, educatore, Franco Vaccari ha lavorato per quarant'anni nella zona d'ombra di un'arte relazionale che Adriano Spatola, già nel 1966, definiva un «salto nel mondo». A partire dalla prima Esposizione in tempo reale (Viaggio+Rito), nel 1969, Vaccari ha utilizzato l'installazione come motore «leggero», talvolta fintamente ironico o svagato, in grado di muovere il pubblico a un'azione riflessiva. Il fondamento metaforico di questa leggerezza era già presente in un video dello stesso anno, Ventoscopio, che contrapponeva alla fissità del monumento il movimento effimero di un nastro di carta mosso dall'aria. Nel corso degli anni questo approccio si è avvicinato sempre più a specifici temi politici o sociali. È il caso di Bar Code-Code Bar (1993), di nuovo alla Biennale, dove in un vero bar con tavolini, luci soffuse e un distributore di bevande era presentata in un pannello la vicenda di Silvia Baraldini, allora ancora detenuta negli Stati Uniti per reati di opinione; o del video Lontano da... (1995), dedicato alle badanti rumene e alle loro abitudini nei momenti di svago. L'ultima Esposizione in tempo reale, allestita in una retrospettiva a cura di Vittorio Fagone e Nicoletta Leonardi da poco conclusa allo Spazio Oberdan di Milano, era intitolata Biomassa: una bilancia per carichi in movimento, invece di contabilizzare il numero di biglietti venduti, misurava il peso totale dei visitatori della mostra - la traccia biologica, invece che fotografica, di un ecosistema dell'arte.
Un ampio catalogo che documenta le trentasei Esposizioni in tempo reale realizzate dall'artista e una raccolta di saggi a cura di Nicoletta Leonardi intitolata significativamente Feedback. Scritti su e di Franco Vaccari (Postmedia) permettono oggi di ripercorrere in tutta la sua attualità il senso di quest'arte profondamente pubblica, a lungo marginalizzata proprio per il suo rifiuto programmatico di utilizzare le strategie della tecnica e dello stile per produrre oggetti e quindi merce. A gettare una luce nuova sulla ricerca di Vaccari è proprio la destabilizzante dialettica tra parole e immagini che l'artista ha sempre coltivato nei suoi libri e che non ha consentito di collocarlo in nessuno schema dell'industria culturale. In effetti il feedback più stimolante sembra realizzarsi tra le parole e le opere che Vaccari è venuto elaborando nel corso degli anni.
A colpire infatti è il carattere non strumentale e asistematico della sua riflessione: Vaccari non scrive mai per fornire un valore teorico alle proprie opere - in questo, paradossalmente, sta la sua coerenza. Gli argomenti discussi sono disparati: dalle teorie della comunicazione alla filosofia, da Beuys a Yves Klein, dall'album di famiglia ai fotografi della «Scuola di Düsseldorf», attraversando la critica al Surrealismo, il sogno come dimensione vitale e non escapistica, il corpo e la nudità, il ruolo della maschera, la catastrofe, l'entropia. Tanto rizomatico nella scelta dei temi quanto essenziale nella precisione della lingua, il vagare pensoso di Vaccari è una avventura «antisemiotica» che evita ogni schematizzazione didattica: si ricollega, piuttosto, a quella base antropologica del fare artistico che Emmanuel Anati, in Origini dell'arte e della concettualità, identificava con i cacciatori nomadici, non affetti dall'ansia della conservazione e dal culto dell'oggetto.
Nelle sue riflessioni Vaccari ritorna su un concetto che ha innervato buona parte della sua produzione degli anni Settanta e che dà il titolo all'opera teorica del '79 per la quale sinora era più conosciuto, Fotografia e inconscio tecnologico. Derivata da Mashall McLuhan e da Walter Benjamin, l'idea di una struttura sottesa alle tecniche di rappresentazione a bassa risoluzione (la televisione, la fotografia al suo «grado zero», la Polaroid) è proposta da Vaccari anzitutto per ribadire la necessità di un'arte «senza autore». In una notazione di passaggio, Pasolini dichiarava di essere interessato alle fotografie di cronaca per gli accidenti involontari che comparivano sullo sfondo più che per il soggetto principale scelto dal fotografo. Con un intento analogo, negli anni Sessanta, un artista concettuale come Ed Ruscha aveva prodotto serie fotografiche «al grado zero» riprendendo le facciate delle anonime abitazioni di Sunset Boulevard o la trama geometrica di alcuni parcheggi di Los Angeles ripresi dall'alto. Tuttavia per Vaccari, legato all'antropologia di Lévi-Strauss più che alla psicologia di Jung e di Freud, l'inconscio tecnologico dei nuovi media permette di esplorare anche un'altra dimensione: l'immaginario collettivo delle maggioranze silenziose.
L'Esposizione in tempo reale del 1972 (e molte successive) opera sulla «estetica dei grandi numeri», ovvero come laboratorio sismografico che registra il riverbero di piccole scosse di reazione a un esperimento apparentemente innocuo come farsi una fotografia. Anche qui esiste forse un precedente alla scoperta di Vaccari: l'atlante sociale della Germania di Weimar compilato da August Sander riprendendo centinaia di cittadini di diverse classi sociali. Contrariamente a Sander, tuttavia, Vaccari non ha di mira una classificazione sociologica. A ben vedere, l'effetto più politico del suo lavoro viene raggiunto proprio quando l'inconscio sociale non si deposita in una forma, ma è solo perturbato da minimi atti di détournement senza effetti concreti: esplorare di notte il parcheggio di uno stabilimento con una pila in mano, accettare un «trattamento completo» in un albergo diurno, che include un non meglio identificato «supplemento estetico».
Acutamente Nicoletta Leonardi ha indicato in queste situazioni di micro-conflitto tra pulsioni soggettive e comportamento pubblico un tratto distintivo e attuale di tutto il lavoro di Vaccari. La soglia fisica della porta/schermo e lo spazio della stanza - variamente delimitata da pareti, tende, oggetti di uso comune - sono elementi ricorrenti nell'immaginario dell'artista. Non a caso l'Esposizione in tempo reale n. 5 (1973) è intitolata Spazio privato in spazio pubblico: due stanze cubiche, senza finestre, in collegamento video tra loro, create all'interno dello spazio aperto della galleria d'arte. Anche in questo caso nessun accadimento è progettato, ma solo uno spazio di relazione che fa emergere dalla sua normale inconsistenza il «tempo reale» della vita quodiana. Che cosa è esterno, che cosa interno? Che cosa fare, potendo osservare nel privato di un'altra stanza, ma consapevoli di essere a nostra volta osservati?
Esplorando sin dagli anni Settanta temi come la sorveglianza, la tecnologia, il rapporto tra individuale e collettivo, e proponendo i concetti di «traccia» e «inconscio tecnologico», Franco Vaccari ha anticipato formulazioni teoriche oggi in voga (come quelle di Roland Barthes o Rosalind Krauss) e le pratiche interdisciplinari dell'arte pubblica e relazionale. La sua programmata destabilizzazione dei meccanismi istituzionali dell'arte è forse una delle ragioni del ritardo della cultura italiana nell'apprezzare il suo ruolo di innovatore e la sua statura internazionale, al pari di artisti concettuali come Vito Acconci o teorici militanti come Victor Burgin. Un ritardo che conferma l'inadeguatezza del sistema italiano dell'arte nel riconoscere la centralità della fotografia e dei lens-based media nella storia della visualità contemporanea.