CULTURA

Una impresa adeguata alle regole del mondo globale

nuovi musei
RIBALDI CECILIA,

La smania di espansione verso nuovi territori (e soprattutto verso nuovi mercati) mobilita i musei più importanti in luoghi lontani dal loro contesto storico e culturale. La politica del franchising museale, per anni marchio esclusivo dell'impresa Guggenheim e finora considerata come una aberrazione «americana», ha finito per contagiare perfino la più tradizionale istituzione culturale francese, il Louvre, la cui decisione di creare una succursale a Abu Dhabi ha suscitato un vero terremoto che ha portato all'allontanamento dal Conseil des musées francais di Pierre Rosenberg, contrario al progetto, e alle dimissioni di Michel Laclotte, storico direttore del museo. Perché il modello Guggenheim risulta vincente? La spiegazione è semplice: perché il museo nel senso tradizionale, cui si lega di solito un'immagine polverosa, lascia qui posto a una impresa perfetta per le regole del mercato globalizzato, che crea un prodotto (le mostre) standard di facile fruizione da un immaginario consensuale, distribuisce nelle sedi i costi di produzione e realizza il fatturato conquistando spazi di mercato (visitatori). Ma cosa c'entra tutto ciò con il museo, luogo di conservazione di una collezione permanente stratificata dalla storia e legata secondo l'idea europea al territorio ? Assolutamente niente. Oggi un luogo destinato alla conservazione è in contrasto con lo spirito dei tempi in cui tutto è instabile, precario o per dirla con le parole di Zygmunt Bauman, «liquido». Nel suo bel libro Immaginare il museo. Riflessioni sulla didattica e il pubblico (pp. 107, euro 14) uscito di recente per Jaca Book, Maria Teresa Balboni Brizza, riflettendo sull'assenza dei giovani nei musei, ne rivela il paradosso: «Il museo è stato (già) definito un'istituzione "contro natura" perché esiste per conservare le cose che nel naturale corso degli eventi sarebbero destinate a corrompersi e a scomparire». In tale contesto di crisi emergono nuovi tentativi di riflessione: un recente convegno curato a Roma da Marisa Dalai Emiliani, «Il museo verso una nuova identità», ha messo a confronto alcune sperimentazioni realizzate in Italia e fuori, accomunate dall'intento di rilanciare l'istituzione come luogo di progettualità del futuro. In alcuni casi l'intervento di artisti nel museo ha rinnovato ciò che si voleva trasmettere al futuro; l'installazione di Peter Eisenmann «Il giardino dei passi perduti» del 2003 e l'intervento dell'artista Herbert Hamak nel 2007 al Museo di Castelvecchio a Verona, ad esempio, hanno avuto la funzione di mettere in luce attraverso il linguaggio contemporaneo la peculiarità dell'opera di Carlo Scarpa, capofila della museografia del dopoguerra. Allo stesso modo, il lavoro di Arnaldo Pomodoro realizzato tra il '98 e il 2000 nella sala d'armi del Poldi Pezzoli di Milano ha riattivato l'atmosfera fiabesca dell'allestimento originale andata perduta. E l'elemento emozionale che l'artista introduce nei musei storici assume un significato diverso ma un peso anche maggiore nei musei locali come il Museo del Silenzio delle Clarisse a Fara Sabina. Esperienze così specifiche non sono tuttavia modelli esportabili perché nascono da un rapporto particolare con il territorio e non sono applicabili ai grandi musei dove i problemi sono connessi al mantenimento delle collezioni storiche. In ogni caso la nuova riflessione sulla identità museale ha ridato impulso al dibattito nel nostro paese. Lo dimostra il moltiplicarsi di pubblicazioni negli ultimi mesi: oltre al volume di Balboni Brizza, il nuovo libro di Francesco Antinucci Musei Virtuali (Laterza) e il manuale di museologia di Lucia Cataldo e Marta Paraventi Il museo oggi (Hoepli).

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