INTERNAZIONALE

Etiopia, «pena di morte per tutta l'opposizione»

MANFREDI EMILIO,Addis Adeba

Di nuovo altissima la tensione politica in Etiopia dopo che, ieri mattina, gli accusatori dell'Alta Corte Federale hanno chiesto la condanna a morte per 38 tra oppositori politici e giornalisti, in carcere da ormai quasi due anni con l'accusa di aver tentato di rovesciare il governo in carica. «Questi uomini hanno cospirato per rovesciare il governo. Per fare ciò, hanno creato il caos, distruggendo proprietà statali e private, rendendosi responsabili della morte di uomini delle forze dell'ordine. Per queste ragioni, e perché sono stati ritenuti colpevoli di tutti i capi d'imputazione (alto tradimento, tentativo di rovesciare il governo, incitamento alla violenza, ndr) oggi chiediamo che vengano condannati a morte». Così ha parlato Abraham Tetemke, uno dei pubblici ministeri del processo. Pare dunque avviarsi a una conclusione molto dura il caso politico che scuote il grande stato del Corno d'Africa.
Ma ricapitoliamo i fatti: nel maggio 2005 gli etiopi vanno a votare per la terza volta da quando, nel 1991, l'Eprdf (Fronte Rivoluzionario Democratico del popolo etiope, il partito tuttora al governo) ha deposto il regime socialista del Derg. Il primo ministro e uomo forte del governo, Meles Zenawi, promette una svolta democratica importante, così da fare ancora una volta contenti i suoi numerosi sponsor stranieri (Blair in testa a tutti). Dunque: spazio ai partiti d'opposizione, dibattiti televisivi, inviti ripetuti affinché dall'estero giungano esperti a monitorare il voto. Tutti ci credono, tutti si attrezzano a far diventare vero il sogno: elezioni e democrazia, in un paese africano così a lungo problematico.
Il sogno diventa incubo molto presto. Già prima del voto l'opposizione (per la prima volta riunita i due grandi raggruppamenti, tra essi alleati, il Kinjit e l'Uedf) aveva denunciato intimidazioni. Subito dopo le elezioni, però, compaiono le prove. Secondo il team di osservatori europei presenti in Etiopia, guidati da Ana Gomes, le elezioni in Etiopia sono state falsate da irregolarità inaccettabili, con i candidati dell'opposizione minacciati e aggrediti, soprattutto fuori dai grandi centri urbani.
Dopo lunghi tira e molla, il partito al governo dichiara di aver ottenuto di nuovo la maggioranza assoluta in parlamento. Chiede all'opposizione di accettare il risultato, di prendere posto nei luoghi della politica, di smetterla di gridare allo scandalo.
La gente, in Etiopia, dopo aver creduto alla favola della democrazia, non ci sta. Scende in piazza e protesta. Prima a giugno (e si contano già parecchi morti, uccisi dalle forze di sicurezza mentre manifestano disarmati) poi a novembre. Stavolta, Zenawi decide di farla finita.
Centinaia di morti (le cifre ufficiali si fermano a meno di duecento), almeno 30mila arresti solo nella capitale, Addis Abeba, in tre giorni. E tutta la leadership del Kinjit, il principale partito d'opposizione (che nella capitale, come in tutte le città, ha stravinto) arrestata in poche ore. Da quel giorno, sta dietro le sbarre una parte importante dell'intelligentsia etiope: Mesfin Wodemariam, docente universitario e storico difensore dei diritti umani in Etiopia; Berhanu Nega, economista e sindaco eletto di Addis Abeba (praticamente col 100 % delle preferenze); Yacob Hailemariam, professore di diritto internazionale in Usa nonché ex-procuratore al Tribunale Penale internazionale per il Ruanda. Solo per citare i casi più eclatanti.
Per sapere come andrà a finire, bisognerà attendere il prossimo 16 luglio, data della sentenza definitiva. Da molte parti (Europa, Stati uniti), si è cercato di trovare una mediazione che convincesse Zenawi e mandasse liberi (magari in esilio) gli accusati, molti dei quali distrutti dalle condizioni di detenzione. Ma il primo ministro non ha ceduto, anzi. In caso di condanna, potrebbe ridiscutere un eventuale esilio da una posizione ben più forte.
Dopo essersi accreditato come l'unico interlocutore affidabile per la «war on terror» nel Corno d'Africa, Zenawi vuole di più: liquidare l'opposizione interna (e scoraggiarne di nuove), proseguire il lavoro in Somalia, magari aumentare la pressione sull'Eritrea: è questa la pax Zenawi?

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