Tentare di rappresentare il fascino astratto della musica è operazione complessa. Spiegarla poi è praticamente impossibile. Eppure è questa la strada scelta da Agnieszka Holland per Io e Beethoven. E per farlo si affida a un personaggio di pura fantasia. Ecco infatti Anna Holtz, inviata a casa del genio ispido e scontroso per trascrivere in tutta fretta la partitura della Nona sinfonia. Sono scintille, ma come, una donna per quel tipo di lavoro? Invece Anna diventa una sorta di alter ego, lo aiuta a dirigere perché lui è sordo, diventa insostituibile, si prende anche la sua dose di insulti per avere osato mostrare al genio quel che lei ha scritto.
La Holland vuole celebrare il talento anticipatore di Beethoven, si avventura in spiegazioni tecniche che appesantiscono il racconto, mette a metà film la rappresentazione epica e trascinante della prima esecuzione della Nona con l'esplosione finale del coro, poi lascia che tutto si sbricioli in qualche modo di fronte a una relazione tra Anna e Ludwig totalmente insensata. Perché poi è questa la vera debolezza del film, orchestrare un rapporto di Beethoven con una donna, bellissima, che gli gira per casa, che lo accudisce, che lo assiste in ogni modo, complice musicale del sublime, ma purtroppo si tratta di una figura inesistente che stride non poco in un biopic, seppure limitato. Ed Harris si impegna allo spasimo per essere ruvido, sordo e capellone, mentre Diane Kruger appare come una suffragetta fuori ruolo. Nonostante la serietà dell'intento ci sono sfumature che sfiorano la parodia (con gli inquilini del piano di sotto che vedono sistematicamente devastato il loro pranzo dalle abluzioni del genio). Così sembra sia Belushi a essere seduto al pianoforte e non Harris che dispone di grande tecnica ma sembra decisamente spiazzato sotto il trucco.