INTERNAZIONALE

Bombe Usa sulla Somalia

MANFREDI EMILIOAddis Abeba

Aerei militari e navi da guerra statunitensi ancora in azione in Somalia. Nella notte di venerdì, come già a gennaio, missili americani sono piovuti sul nord del paese. Obiettivo: distruggere un gruppo di militanti islamisti che avrebbe tentato di riorganizzarsi nella regione semiautonoma del Puntland, nel nord della Somalia. Già da mercoledì, fonti locali avevano raccontato al manifesto dell'arrivo nell'area di Bargaal di almeno due gommoni carichi di miliziani islamici pesantemente armati, e della presenza in tutta l'area di un consistente numero di soldati del Puntland. «Si tratta di un gruppo di almeno 35 estremisti islamici, per la maggior parte stranieri, già sconfitti in battaglia a Ras Kiamboni, vicino alla frontiera con il Kenya, e che ora cercano di agitare le acque qui nel Puntland. Ma eliminereno il problema», ha raccontato mercoledì Musse Gelle, il governatore della provincia in cui si trova Bargaal. La battaglia non si è fatta attendere, ma ha visto gli islamisti avere la meglio e aprirsi un varco verso le montagne circostanti, che, poche ore dopo, sono state prese di mira dai missili statunitensi. Sinora non si hanno informazioni circa l'esito del bombardamento. L'unico commento del Pentagono non fornisce dettagli sull'operazione, e si limita ad affermare che «le azioni contro sospetti terroristi vanno portate avanti con cautela, in collaborazione con gli alleati».
Se è presto per valutare i risultati «tecnici» del raid, è certo che questa operazione esplicita l'alto livello di coinvolgimento degli Usa in Somalia, non soltanto a livello militare. Il raid, tra i vari effetti collaterali, intorbidirà ulteriormente le acque somale in un momento molto delicato: l'approssimarsi della contestatissima Conferenza somala di riconciliazione nazionale. In un'intervista concessa alla radio somala Shabelle, John Yates, inviato speciale Usa per la Somalia, ha dichiarato che il suo governo sostiene attivamente - e finanziariamente - la Conferenza, i cui lavori dovrebbero iniziare a Mogadiscio il 14 giugno.
Promesso e rimandato già due volte da quando, nel gennaio scorso, il governo provvisorio ha preso il controllo del paese, il meeting viene venduto come una tappa fondamentale per la rinascita della Somalia. «La Conferenza coinvolgerà tutti i somali che condannano la violenza, riconoscono le istituzioni di transizione, e che si presentano tramite il proprio clan», ha spiegato al manifesto il premier Gedi di passaggio in Etiopia. Nelle stesse ore, però, il ministro degli interni, Mohamed Dheere, ha dichiarato al giornale arabo Asharqalawsat che l'incontro potrebbe saltare per la terza volta, per mancanza di fondi. «Senza adeguata assistenza internazionale, la Somalia non può fare partire il processo di riconciliazione».
In attesa di capire se l'incontro comincerà davvero tra dieci giorni, alcuni interrogativi si addensano sul futuro del processo di riconciliazione. Anzitutto, un gran numero di politici, intellettuali e uomini d'affari somali affermano che la Conferenza non va fatta fintanto che i soldati etiopi continuano a essere presenti come forza di occupazione all'interno del territorio somalo.In secondo luogo, da molte parti si è gridato allo scandalo in seguito alla nomina di Ali Mahdi Mohammed alla presidenza della Conferenza stessa. È noto come Ali Mahdi sia stato uno dei primi signori della guerra somali. Colui che, assieme a Mohamed Farah Aidid, nei primi anni '90 ha iniziato la distruzione delle infrastrutture di Mogadiscio e della vita dei suoi abitanti. Ali Mahdi è noto, peraltro, per il suo ruolo da protagonista nel traffico delle sostanze tossiche provenienti dall'estero - anche dall'Italia - trasferite e stoccate in Somalia. Incredibilmente, nessuna voce si è levata dalla comunità internazionale - che finanzia le istituzioni provvisorie somale - per chiedere conto di questa nomina al presidente somalo Yusuf.
Molti somali si chiedono poi come mai si continui, da parte del Tfg, a battere sulla grancassa della Conferenza «per riconciliare i diversi clan», quando da tempo non si assiste ad uno scontro aperto a livello «tribale» in Somalia. Bisognerebbe avere la forza di dire chiaramente che - come ha a lungo cercato di spiegare l'inviato del governo italiano per la Somalia, Mario Raffaelli - il conflitto è soprattutto politico, e che le due parti in causa sono da un lato le Corti islamiche e i loro sostenitori nella società civile e tra i businessmen somali (con certo uno zoccolo duro nei clan di Mogadiscio, in particolare gli Hawiye-Ayr), dall'altro il Tfg (e molti signori della guerra).
Riformulando così il punto di partenza della discussione, andrebbero sciolti alcuni nodi fondamentali per fare sedere le reali parti in causa al tavolo delle trattative: è possibile tenere la conferenza in una Mogadiscio ancora sotto controllo militare di un esercito straniero - gli etiopi - schierato apertamente in favore di una parte politica - il governo provvisorio? Secondo gli oppositori del Tfg, chiaramente no.

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