India anni '70. Un giovane sta viaggiando seduto nello scompartimento di un treno. Sta leggendo Gogol, il suo scrittore preferito. All'improvviso il disastro. Un incidente spaventoso. Ma lui si salva miracolosamente e attribuisce il merito a quella lettura. Passa qualche tempo, nonostante abbia studiato e lavori in America, quel giovane, rispettoso delle tradizioni, torna in India per sposarsi. Poi la nuova coppia torna a New York. La festa di colori e di caldo si trasforma in un paesaggio grigio e freddo. La giovane sposa non si ritrova più di tanto in un mondo che le appare sicuramente estraneo e forse anche ostico. In compenso è entusiasta all'idea di avere direttamente a casa acqua potabile e gas. Sono innamorati e in cerca della felicità. Arrivano anche un paio di figli. Con il maschietto sorge un piccolo problema. Mentre la tradizione vuole che il nome sia scelto dalla nonna in patria, scelta che avviene con tempi lunghi, l'anagrafe statunitense esige di registrare il neonato con il nome. E allora gli viene assegnato quello (provvisorio) di Gogol. Gogol vive un'infanzia serena e felice, almeno sino al momento della scuola quando quel nome che gli piaceva tanto diventa un impiccio, anche perché si chiama Ganguli di cognome e l'insieme suona davvero piuttosto buffo. E allora ne sceglie un altro, più consono ai costumi locali e naturalmente si allontana sempre più dalle sue tradizioni d'origine. Diventa un newyorkese a tutti gli effetti. Scoprirà solo più tardi che dietro quel nome c'era una storia e che per suo padre rappresentava qualcosa di più che una scelta come un'altra.
Mira Nair, pur ispirandosi al romanzo L'omonimo di Jhumpa Lahiri (Marcos y Marcos) in questo Il destino del nome-Namesake, porta la sua esperienza diretta nell'inquadrare il racconto. Si è infatti laureata due volte, prima a Delhi, poi a Harvard. Conosce quindi benissimo la lacerazione della doppia cultura, quella d'origine e quella acquisita, talvolta così lontane da rendere problematiche le scelte individuali. E da questa esperienza mette in scena un film che scorre nell'arco di trenta anni, mostra generazioni diverse, con un affetto nei confronti dei personaggi che dà il tono a un film che rischierebbe il melodramma a tinte forti. Certo, non manca qualche indulgenza matrimoniale, nel senso che la cerimonia molto teatrale esercita sulla regista un fascino irresistibile (comprensibile, del resto aveva anche vinto a Venezia con Moonsoon Wedding), ma nell'insieme le emozioni sono calibrate e appassionanti. Nonostante si tratti di un tema più volte affrontato, è bandito il manicheismo, le contraddizioni sono esplicitate senza moralismi ma non si affonda nel luogo comune, tantomeno nella tragedia che non appartengono al bagaglio di Mira Nair, più propensa a tratteggiare l'animo umano e i rapporti interpersonali. E in questo quadro buona parte del merito va a Tabu, l'attrice indiana che interpreta il personaggio della madre, vero collante del film e della famiglia, una straordinaria scoperta, almeno per noi, perché in patria è conosciutissima.