INTERNAZIONALE

Usa, la deriva monarchica e quella opportunistica

commento
TONELLO FABRIZIO,

Proprio nel giorno i cui i sondaggi misuravano un aumento ulteriore dell'opposizione alla guerra in Iraq tra l'opinione pubblica (il 72% giudica negativamente l'azione di Bush) una frattura tra i democratici ha permesso l'approvazione del rifinanziamento delle operazioni belliche senza una scadenza per il ritiro delle truppe americane. La maggioranza democratica alla Camera aveva approvato per due volte un testo che condizionava i finanziamenti a una data per riportare le truppe in patria ma il presidente Bush aveva tranquillamente posto il veto, sapendo che prima o poi i democratici avrebbero dovuto venire a patti o esporsi al rischio di venire accusati di «tradimento» delle truppe sul campo di battaglia. Al Senato, tra l'altro, una maggioranza favorevole al ritiro in realtà non c'è perché 51 senatori sono sulla linea della Casa bianca.
Il compromesso di ieri segna una sconfitta personale per il nuovo speaker Nancy Pelosi, che ha votato contro assieme a 141 altri deputati, mentre 86 democratici si univano ai repubblicani nel creare una maggioranza per il rifinanziamento. Al Senato, dove il «compromesso» era stato confezionato, la maggioranza è stata ancora più larga: 80 a 14. I due senatori in corsa per la candidatura alle Presidenziali del 2008, Hillary Clinton e Barack Obama, dopo aver letto i sondaggi hanno scelto di votare contro.
La situazione attuale, in realtà, è il frutto di una lunga deriva «monarchica» della presidenza come istituzione, deriva alla quale le fragili maggioranze uscite dal voto del novembre 2006 difficilmente potranno mettere rimedio. Com'è noto, anche se il presidente ha il titolo di «comandante in capo» delle forze armate, i costituenti consideravano impensabile lasciargli la possibilità di dichiarare guerra, o comunque di condurre operazioni militari senza l'autorizzazione del Congresso, i cui poteri sono minuziosamente elencati nell'articolo 1 della costituzione.
Di fatto, almeno da Lincoln in poi, i presidenti si sono arrogati il diritto di fare la guerra e la pace, trascinando il Congresso a cose fatte. Eppure, il diritto/dovere di votare il bilancio conferisce proprio alle camere la responsabilità politica di mantenere il paese in pace o di portarlo in guerra, una responsabilità di cui solo saltuariamente deputati e senatori si ricordano. Nel 1993, per esempio, un'ampia maggioranza votò l'emendamento Byrd che sopprimeva ogni stanziamento per operazioni militari in Somalia dopo il 31 marzo 1994 e al presidente Clinton, che avrebbe voluto mantenere una presenza di truppe in loco, non restò che capitolare, facendo rientrare gli ultimi soldati americani nel 1995.
Nel 1994, il Senato votò una risoluzione del senatore George Mitchell (approvata con 91 voti favorevoli e 8 contrari) che chiedeva al presidente di ritirare «nel più breve tempo possibile» ogni contingente militare da Haiti. Benché la risoluzione non contenesse una data precisa, la pressione politica fu tale che anche in quel caso Clinton fu costretto ad abbandonare l'idea di lasciare i marines per proteggere la fragile democrazia caraibica (c'era stato un golpe dei generali contro il presidente Aristide nel 1991).
I democratici, nel caso Iraq, chiaramente vogliono temporeggiare, sperando che la situazione si aggravi e rappresenti un ostacolo insuperabile per qualsiasi candidato repubblicano nel 2008, in particolare per John McCain, il senatore dell'Arizona che ha più sostenuto la tesi di aumentare le truppe anziché diminuirle o ritirarle. Questa però rischia di essere una posizione debole e percepita come opportunistica dagli elettori, che già nel 2004 punirono John Kerry proprio per le sue ambiguità sulla guerra.

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