Il libro a cura di Riccardo Bellofiore, Da Marx a Marx? Un bilancio dei marxismi italiani del Novecento (manifestolibri, pp. 270, euro 28), raccoglie le relazioni presentate in un convegno tenutosi a Bergamo il 18 novembre 2005 per discutere il libro di Cristina Corradi su la Storia dei marxismi in Italia (manifestolibri). Il convegno ebbe il merito di mettere a confronto orientamento diversi per uno scavo dentro le opere marxiane. Attraverso i marxismi. E certamente non solo italiani. Bellofiore scrive che «una "storia dei marxismi in Italia" è un progetto impossibile». Gli sviluppi del marxismo italiano non sono infatti una storia di intellettuali italiani separati dal contesto politico internazionale. Basti ricordare, solo per esemplificare, come una parte del marxismo italiano che faceva riferimento al Partito comunista italiano è stato subalterno politicamente e teoricamente al marxismo russo nella sua variante socialista-nazionale. E quanto marxismo in rotta con lo stalinismo dei gruppi dirigenti guardava invece agli Stati Uniti, alle lotte degli Iww e alla storia dell'altro movimento operaio.
La discussione sul libro della Corradi ha portato in luce quelle insorgenze operaie senza le quali la riflessione marxiana non si sarebbe rinnovata dalle pastoie dello storicismo nelle quali annaspava da tempo. A ciò hanno contribuito filoni diversi. Ci sono tradizioni, nella storia dei marxismi, che hanno saputo cogliere le anticipazioni della teoria che si danno nella prassi, per rielaborarle teoricamente e produrre un nuovo immaginario politico capace di attivare una conflittualità aderente a un contesto sociale e economico in forte mutamento. L'operaismo, questo «marxismo fuori del marxismo», per riprendere la definizione di Adelino Zanini, coniugando Husserl e Weber a Marx, pose, ad esempio, il problema (politico) della crisi di quel fondamento, si potrebbe dire galileiano sul quale si era attardato molto marxismo italiano: dentro questa rottura fu possibile porre il problema (ancora una volta, politico) di una filosofia della soggettività. Diversamente, la lettura di Althusser, come sottolinea Maria Turchetto nel suo saggio, contribuì a innovare la visione del Capitale e, oggi, a mettere in luce il tema di un materialismo aleatorio libero dalla prospettiva teleologica che affascinò molti marxismi.
Poi ci sono «Quelli del lavoro vivo», come recita eloquentemente il titolo del saggio di Bellofiore: prendendo le mosse dal processo di valorizzazione come unità dei processi di produzione e circolazione, e recuperando il filone Rubin, Grossmann, Luxemburg, l'accento cade sulla dipendenza del plusvalore dall'estrazione conflittuale di lavoro vivo a soggetti potenzialmente riottosi.
Qui la storia a ritroso proposta da Bellofiore vuole dissotterrare i problemi lasciati aperti da Marx, e non invece crogiolarsi sulla figurina di un Marx «classico», privo delle contaminazioni del marxismo successivo.
Il problema di un ritorno a Marx dopo i marxismi, posto in forma interrogativa nel titolo del libro, appare fuorviante, come osservava lo stesso curatore, o addirittura un falso problema. Fuorviante perché presuppone l'esistenza di un Marx originario, vero e magari epurato dalle forzature engelsiane, mentre invece la riflessione teorica di Marx è sempre stata «nella mischia». Bisogna piuttosto imparare, o reimparare, a leggere Il Capitale tenendo nella mano sinistra non la Scienza della Logica ma gli scritti politici maxiani. Lo stesso Marx è un pezzo di marxismo e di storia del movimento operaio; perciò il ritorno a Marx dopo i marxismi è un falso problema. Esistono piuttosto correnti nel marxismo. Bordiga, ricordato solo da Balicco è uno di quei filoni che, specialmente dopo il crollo del «socialismo reale», si farebbe bene a rivisitare.
Le discussioni raccolte nel volume curato da Bellofiore hanno il merito di aver riattivato, con un profilo alto, la questione del Marx del valore e «della lotta delle classi innanzi tutto nel cuore della produzione». Interessava a Marx una esposizione capace di mostrare il rapporto mai pacificato né pacificabile tra capitale e lavoro vivo. E non si tratta solo di una contraddizione, logica o reale che sia, perché quel rapporto esprime da un lato la valenza mortifera, o astratta, come preferisce chiamarla Finelli, del capitale, e dall'altro il lavoro vivo, il suo essere irrimediabilmente attaccato a un corpo. Senza il prometeismo dello sviluppo delle forze produttive il Marx del Capitale porta la tensione espositiva a un punto estremo: il Capitale, con il suo paesaggio gotico, rappresenta il capitale come morte. Esso è essenzialmente distruzione, della natura e dei corpi dei lavoratori, non per la malvagità dei capitalisti, ma per in-differenza. La stessa che domina la produzione di valori d'uso e i rapporti interpersonali. Solo che questo macchina funziona solo se «vampirizza» lavoro vivente, il cui ostacolo all'astrazione consiste proprio nell'avere un corpo. Ed è questo il punto in cui quella storia può essere interrotta.