VISIONI

Libano, giochi di luce fra le rovine

DI GENOVA ARIANNA,Roma

A volte vedi soltanto una porta, in penombra, con parti scrostate di stipiti verdastri: è l'«ingresso» in un mondo privato, notturno, per sguardi rapaci. Poi sbirci meglio, ti avvicini, cerchi di indovinare tra le ombre e cogli esili figure in cortili improvvisati, bambini seduti su letti sgualciti, silhouettes umane che si stagliano fra i detriti di stanze vissute in emergenza perenne. Fare da spettatori non è sempre facile; i campi profughi narrano di vite in bilico, pullulano di infanzia senza luce: il confronto tra il noi e il voi diventa pressante, spesso si trasforma in un'accusa.
Gli undici giovani fotografi che hanno assunto l'impegno di portare avanti il progetto del workshop voluto da Stefano Chiarini, nonostante la sua scomparsa improvvisa (si tratta del terzo appuntamento dell'Annual courses of digital photography, fondati nel campo profughi palestinese Mar Elias dell'ong Assomoud con il reporter Patrizio Espositivo e l'associazione «Per non dimenticare Sabra e Chatila», promossa dal nostro inviato), 18-30 anni alle spalle, hanno scattato il «loro» Libano. Quello distrutto dalla recrudescenza della guerra e un altro più intimo, in molte occasioni affidato agli occhi dei più piccoli o ai riflessi di luci che cancellano l'identità delle persone entrate nell'inquadratura, per caso o per necessità. All'entrata del percorso espositivo, c'è un micro-album speciale. È il diario dell'esperienza del laboratorio, ottenuto fotografandosi l'un l'altro in giro per la città, avendo come set due Beirut: i quartieri-maceria e il dentro/fuori dei campi palestinesi.
Così, sulle pareti bianche di Project Room a Villa Glori (fino al 3 giugno), appese come fossero ancora delle semplici prove, stampe di laboratorio, in un precario equilibrio, sfilano le immagini di questi ragazzi che insieme compongono un lavoro collettivo (non vengono mai segnalati i nomi degli autori degli scatti proprio perché la testimonianza è come un mosaico, un patchwork di sguardi) dal titolo Beirut, tempo presente. La mostra, curata da Irene Alison, è inserita nella sesta edizione del festival internazionale FotoGrafia, intreccia più itinerari. Il primo, anche il più inconsapevole, è quello dell'errore; studenti che fotografano con macchine compatte e reflex, cercando di catturare momenti che giudicano significativi e che a volte sbagliano. Magari sottoespongono troppo e allora l'immagine è una macchia che tutto ingoia tranne, però, una testa girata che guarda altrove e lascia appena indovinare uno stretto corridoio, senza sole. Oppure la foto viene «mossa» e allora il risultato è una poetica visione dall'alto di una strada lungomare con le macchine poco riconoscibili che sembrano figure geometriche impazzite nello spazio. O ancora, lo spostamento del soggetto si sdoppia in un'immagine che nasconde il corpo di una bambina, proprio lì, affacciata sulla porta della sua casa. La loro Beirut non è sottoposta alle regole del fotogiornalismo, ma si libera da sola, con uno stile impressionistico, en plein air.
In città, ognuno dei corsisti ci arrivava dopo una o due ore di viaggio, abitando in campi profughi distanti, da Shatila a Beddawi-el Helwe. Molti non avevano mai scattato una fotografia né posseduto una macchina. Poi, una volta arrivati, lavoravano cinque/sei ore al giorno: centinaia di immagini più un un diario di bordo. «Una famiglia carica alcuni mobili su un camioncino malandato - viene scrupolosamente annotato - L'autista del mezzo e un aiutante hanno appena finito di sistemare le ultime cose per il trasloco. 'Parlo italiano', dice il capofamiglia, perché ho lavorato in varie città del nord Italia ma poi sono tornato a Beirut per stare insieme ai bambini...Andiamo in un posto più sicuro di questo. Gli israeliani hanno colpito la televisione di Hezbollah e distrutto la nostra casa e quella dei vicini». A Beirut, sono storie di ordinaria follia.
I ragazzi del laboratorio documentano ciò che vedono in due tappe; nella prima, a settembre, ritraggono una città con le ferite ancora tutte aperte. In primavera, gran parte della ricostruzione è già avvenuta ma l'esistenza di tutti è particolarmente difficile e il popolo dei campi sconta sulla propria pelle una quotidianità di assurde privazioni. Loro, i fotografi, si muovono in un clima di tensione e spesso vengono intercettati dalla polizia libanese. «Non capivano come facesse un gruppo di giovani palestinesi armati di macchine fotografiche in giro per Beirut. Ci hanno fermato dalle 10 del mattino alle quattro del pomeriggio. Adesso siamo nel quartiere dove avevamo già fotografato la rimozione delle macerie ma ci viene chiesta una autorizzazione scritta». Qualcun altro dei corsisti, ironico, prende i suoi particolari appunti: «Ho ascoltato Condoleezza Rice alla tv. Diceva che gli Usa avrebbero disegnato in poco tempo un nuovo medioriente».

Supporta il manifesto e l'informazione indipendente

Il manifesto, nato come rivista nel 1969, è sinonimo di testata libera, indipendente e tagliente.
Logo archivio storico del manifesto
L'archivio storico del manifesto è un progetto del manifesto pubblicato gratis su Internet e aperto a tutti.
Vai al manifesto.it