VISIONI

Le elezioni presidenziali Usa in un'aspra commedia anti-Bush

CATACCHIO ANTONELLO,

Targata Barry Levinson, arriva dagli Usa l'ennesima rappresentazione di elezioni presidenziali, querelle e affini. Tutto parte dal terzo incomodo, Tom Dobbs (interpretato da Robin Williams, come sempre scoppiettante), un comico televisivo con tanto di manager (Christopher Walken) che decide di candidarsi alla presidenza, un po' per burla, un po' per non morire. Tanto è spiazzante e irriverente nel suo show, tanto si trasforma in noioso politico durante la campagna. L'entusiasmo dei fan viene annegato tra gli sbadigli. Poi ha un sussulto, infrange le regole del confronto televisivo e del bon ton per spiattellare in faccia ai contendenti, un democratico e un repubblicano, quanto la loro politica sia solo affaristica e lontana dalla gente. Tripudio. E infatti viene eletto, nonostante sia candidato in soli tredici stati.
Ma c'è qualcosa di strano. Contrariamente alle regole della realtà, dove ogni stato è sovrano nelle modalità elettorali, nella sceneggiatura si immagina che tutto sia stato affidato a una azienda che ha prodotto un software specifico per l'elezione. Un'azienda di imbecilli perché, nonostante nelle simulazioni sulla schermata escano i nomi dei tre candidati con accanto il numero di voti, dopo qualche secondo appare anche il nome del vincitore, contraddicendo chiaramente il dato numerico. Tant'è, solo una dipendente (Laura Linney) se n'è accorta, l'azienda non vuole avere guai, quindi l'inevitabile avvocato (Jeff Goldblum) le fa propinare un'overdose tossica, la licenzia e la scredita. Tutto questo perché serviva una sottotrama.
Il thriller informatico è infatti davvero risibile e piuttosto sciocco. L'attenzione è tutta rivolta a Dobbs-Williams che si presenta alla camera da presidente eletto, agghindato come Thomas Jefferson, invidia l'Italia dove una pornostar è stata eletta alla camera, ironizzando su tutto quanto gli capita a tiro. E lo fa con intelligenza, con battute fulminanti, talmente veloci che talvolta la risata arriva in ritardo, dopo che la zucca ha metabolizzato. La critica alla politica statunitense dell'era Bush è decisamente aspra, si rispolverano tra le righe i brogli i riconteggi e i ricorsi bloccati della Florida, la guerra, gli affari, la Enron. Un po' tutto. Ma tutto caldamente avvolto nella bandiera a stelle e strisce come un feticcio cui aggrapparsi sempre e comunque, perché si tratta della più grande democrazia mondiale, fatta salva la colonna sonora che pesca invece inaspettatamente anche tra gli europeissimi Paolo Conte e Jacques Brel.
Una commedia quindi, nonostante il sottothriller aziendale, che infatti si risolve in una serata al Saturday Night Live (con due conduttrici della trasmissione, Tina Fey e Amy Poehler, nel ruolo di loro stesse) dove il mistero elettorale viene chiarito.
Negli Usa il film non è stato un gran successo (forse troppo evidente l'ambientazione tarocca canadese, per risparmiare, che in compenso ha fatto quadrare i conti) e in molti si sono divertiti a rilevare gli svarioni rispetto alle regole che sovrintendono le vere elezioni presidenziali.
Ovviamente non era questo l'intento di Levinson (che qualche anno fa aveva realizzato il caustico e brillantissimo Sesso & potere), forse però le critiche trovano qualche fondamento in un dato: il racconto si sviluppa come fosse se non proprio realistico, almeno plausibile, mentre la chiave più adatta per una storia del genere avrebbe dovuto essere il grottesco. L'iperbole, l'esagerazione, lo stravolgimento avrebbero forse potuto dare un salutare sgrullone al conformismo che così, pur criticato, rimane tranquillamente sul trono, anzi, nella camera ovale. Quella di L'uomo dell'anno non sarà una risata in grado di seppellirli.

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