POLITICA & SOCIETÀ

«Il Pil? Meglio calcolare il Bil»

Marco Revelli
ANDRUCCIOLI PAOLORoma

«Il bilancio sociale del paese? Una bella idea, apre finalmente una finestra che ci potrebbe portare oltre l'aridità del Pil e dei bilanci economici tradizionali. Ma si tratta di andare a scavare nella società per individuare i giacimenti del malessere, che non risultano ai sondaggi né alle statistiche ufficiali». Marco Revelli, ieri intervenuto al convegno «Verso il bilancio sociale del Paese» organizzato a Roma dal ministero della solidarietà sociale, pensa che la proposta di Paolo Ferrero di creare le condizioni per un vero bilancio sociale sia un'ottima idea perché apre nuove strade per la politica e per la conoscenza della nostra società.
Quali potrebbero essere gli effetti positivi dell'istituzione di un bilancio sociale in Italia?
Dobbiamo cominciare a pensare in termini di Bil, benessere interno lordo, oltre che come al solito di crescita del Pil, il prodotto interno lordo. Se ragioniamo così, dovremmo pensare quindi a un bilancio sociale che abbia delle voci all'attivo e delle voci al passivo. Si dovrà cioè analizzare lo stato del benessere, ma anche del malessere sociale, e avere la capacità di misurarlo.
Ma che cosa si intende per malessere sociale?
C'è un malessere che conosciamo e che cresce: la mancanza di risorse, la precarietà, le diseguaglianze nell'accesso al sapere, alla scuola e alla salute. Ma c'è anche un malessere più insidioso, più ambiguo, che è quello della solitudine, della rottura delle relazioni sociali, la mancanza di fiducia. E' questa la nuova disgregazione sociale che crea rapporti ambivalenti e che va studiata ribaltando anche molti dei luoghi comuni a cui ci siamo abituati. Uno di questi è quello che vede il malessere sociale come inversamente proporzionale allo sviluppo. Si pensa che se c'è più crescita, più sviluppo, ci sarà anche meno malessere sociale. E invece è vero il contrario. La crescita economica continua sta producendo malessere e destrutturazione sociale. Per ridurre il malessere non bisogna fare più economia, ma più welfare. Non meno welfare quindi, come si dice, ma più welfare.
Per arrivare a formulare un bilancio sociale sono necessari anche degli strumenti. A quali possiamo pensare?
Il problema concettuale è per ora proprio questo. Si discute cioè sul modo più corretto di misurare il malessere, il metodo per andare a scoprire i giacimenti del malessere, che sono spesso anche i giacimenti del rancore, dell'aggressività nei confronti degli altri, che spesso coincidono con gli ultimi nella scala sociale. Possono essere gli immigrati, o gli anziani, ma anche i minori. Insomma, le statistiche dell'Istat non ci bastano più per capire i cambiamenti e non ci bastano più le categorie concettuali che abbiamo utilizzato nell'epoca fordista. Lo Stato che vuole cambiare le sue politiche deve quindi dotarsi di occhi e orecchie nuove. Potrei dire che abbiamo bisogno di tanti novelli scout, o delle novelle guide indiane, che vadano in giro per la società con piede leggero per raccontarcela. Gli apparati pubblici devono dotarsi di strumenti nuovi e per far questo è necessaria la collaborazione con la rete dell'associazionismo e del volontariato che vive in mezzo alla società. Per fare un paragone con la storia, potrei citare il presidente Roosevelt che durante la grande crisi del 1929 decise di sguinzagliare decine di intervistatori che hanno poi riportato gli umori veri degli Stati uniti. Centinaia di racconti della crisi. Ed è da lì che ha preso spunto anche la storia orale.

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