VISIONI

Work in progress, la scommessa di un festival come «rete»

MONTINARI MAZZINO,

Alba Nell'epoca di eMule, You Tube e Google video, ossia della selezione fai da te, che fine fanno i festival del cinema «piccoli»? Per i direttori artistici è forse venuto il momento di sacrificare il proprio ego, la voglia di imitare le grandi kermesse, la corsa all'anteprima, all'esclusiva, alla rarità e puntare tutto sul fare rete. Un festival di medie e piccole dimensioni oggi può e deve essere uno spazio pubblico nel quale una collettività rifletta, metta in circolo idee.
Stesso discorso per la realizzazione di un'opera audiovisiva. Oggi, e questa non è certo una scoperta dell'ultima ora, bastano poche persone e buone attrezzature a costi contenuti per fare un film. E non è un caso se ad arrivare in massa per le selezioni dei festival siano i documentari. La voglia di raccontare la realtà, di affermare un discorso politico fatto di testimonianze che sfuggono ai grandi network ma anche la necessità di essere leggeri. E poi se la censura messa in atto da televisioni e distribuzioni sembra un muro invalicabile, allora si scarica tutto su internet alla disperata ricerca di una socializzazione dell'opera.
Al festival di Alba sin dalla sua nascita è stata inserita una sezione denominata Work in Progress. Il modello è un po' il fondo di finanziamento (Hubert Bals) al festival di Rotterdam, o quello che era il Monte Verità a Locarno (fino agli Ateliers a Cannes) e via dicendo. All'inizio era dedicata ai progetti italiani, da quest'anno l'orizzonte si è ampliato all'Europa. 140 lavori in corso pervenuti, una sessantina quelli selezionati e presentati, in prevalenza documentari, poi fiction e infine opere sperimentali e d'animazione.
I progetti erano divisi in gruppi, alcuni sono stati mostrati in pubblico con la visione di pochi frammenti e poi successivamente discussi, altri sono stati presentati tramite incontri privati in un vorticoso scambio di sedie e tavoli. Un po' di sana confusione con qualche scambio di persona, e qualche episodio comico come la premiazione del progetto di Michelangelo Frammartino che usufruirà di sottotitoli gratuiti per un film muto! Niente di male se si pensa agli usuali incontri da museo delle cere che avvengono in altri festival.
La sede di quello che si può definire un esperimento ancora unico in Italia, è stata la fondazione Ferrero, trasformata per l'occasione in uno spazio pubblico dove registi, produttori, distributori e selezionatori di festival hanno potuto discutere e prendere accordi per l'immediato presente e per il futuro.
I film di ogni genere e formato sono in stadi produttivi diversi: c'è chi ha presentato dei soggetti, chi ha potuto mostrare delle riprese allo stato grezzo, chi ha montato una prima parte del lavoro, chi invece è alle prese con la finalizzazione o ha bisogno di una distribuzione. Si cercavano soldi, innanzitutto, ma anche opportunità per far sì che alla fine lo sforzo venga premiato con una visione pubblica, in primo luogo attraverso i festival.
Impossibile allo stato attuale affermare materialmente quali esiti abbiano avuto gli incontri, se i progetti hanno trovato il sostegno cercato. Intanto la cosa da sottolineare è che le idee sono state messe in circolo. Non solo mercato, dunque, e per fortuna. Registi di provata esperienza si sono confrontati allo stesso modo degli autori più giovani, il più delle volte in modo informale, con produttori e distributori europei che hanno ascoltato, preso appunti e suggerito, riportando il cinema all'originario statuto di pratica collettiva, e non riducendolo a una mera espressione di coscienze individuali.
In questo senso, il meccanismo messo in piedi ad Alba da Luciano Barisone e dai curatori del progetto, Giorgia Brianzoli e Carlo Chatrian, ha funzionato. A questo punto è auspicabile che l'esempio sia ripreso anche da altri perché la crisi del cinema prima che economica, è questione politica, nel senso di una mancata propensione al plurale, alla condivisione con gli altri.

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