POLITICA & SOCIETÀ

Il Papa chiama l'adunata

DE CILLIS MIMMO,

La chiesa di papa Ratzinger innesta la retromarcia. Con il documento Sacramentum caritatis presentato ieri alla sala stampa vaticana, si tracciano le conclusioni ufficiali del sinodo dedicato all'eucarestia, celebrato oltretevere nell'autunno scorso, con la partecipazione di oltre 250 vescovi da tutto il mondo.
E' stata la prima assemblea sinodale promossa dal pontificato ratzingeriano che, almeno nelle intenzioni, voleva dare spazio alle necessità, ai problemi, al vissuto delle chiese locali nei cinque continenti. Era stato descritto come un'espressione di pluralismo ecclesiale, caratterizzata dall'ascolto fra chiesa centrale e chiese periferiche, all'insegna della comunione e della collaborazione. L'esortazione finale pubblicata ieri, invece, tradisce lo spirito e il dibattito che si era sviluppato nella variegata e colorata assemblea sinodale e disegna un modello di chiesa rigido, austero, che non lascia concessioni alle culture locali me nemmeno a pratiche e contributi che, dal Concilio vaticano II in poi, si erano andati affermando nella liturgia e nella pastorale. Un documento, insomma, che riporta la chiesa indietro di parecchi anni, se non di secoli, e che, coronando il primo biennio di papato ratzingeriano, lascia piuttosto perplessi, vista la china tradizionalista e integralista che la cattolicità sembra imboccare nel terzo millennio. Tutto scaturisce dalla riflessione sul mistero dell'eucarestia, centrale per la fede cristiana, vista sotto un triplice punto di vista: «mistero da credere», «mistero da celebrare», «mistero da vivere». Che, dunque, ha implicazioni a livello di fede, di liturgia, di prassi pastorale e sociale, e intende ricollegarsi al documento Sacrosantum concilium (del Vaticano II). Immettendovi, però numerose novità e traendo conseguenze finora mai sancite in forma così esplicita nel magistero ratzingeriano.
L'analisi, nell'ambito delle 140 pagine del testo rilasciato ieri, spazia a tutto tondo sui temi cari alla riflessione di Benedetto XVI, toccando sia il versante intraecclesiale, sia quello extraecclesiale. Da un lato vi è il «no» a qualsiasi modifica sul celibato dei preti, l'insistenza su un uso più ampio del latino, le strategie per combattere la crisi delle vocazioni. Dall'altro si ribadisce la difesa della famiglia fondata sul matrimonio uomo-donna, che impegna anche i politici cattolici.
Quest'ultimo nodo che, va detto, non è un aspetto centrale del documento, assume però una particolare rilevanza dato il dibattito sociale e politico in atto nel bel paese, che tocca il ruolo pubblico della chiesa e l'apporto dei cattolici in politica. Il papa li invita ad attenersi al magistero della chiesa, in quanto «il culto gradito a Dio, non è mai atto meramente privato, ma richiede la pubblica testimonianza della propria fede». Il principio vale specialmente quando si toccano questioni fondamentali, «come il rispetto e la difesa della vita umana, dal concepimento fino alla morte naturale, la famiglia fondata sul matrimonio fra uomo e donna, la libertà di educazione dei figli e la promozione del bene comune in tutte le sue forme».
Benedetto esorta dunque i fedeli impegnati in politica a promuovere «leggi ispirate ai valori fondati nella natura umana», e legittima l'interventismo dei vescovi, che hanno il preciso compito di illuminare le coscienze e di far sentire la loro voce. La parte più corposa del testo è, invece, quella che va a disegnare il modello di chiesa: sempre più intransigente, chiusa alle novità, incapace di dialogare con la cultura moderna.
Si parte dal confermare orgogliosamente il celibato sacerdotale, «obbligatorio per la tradizione latina», rispetto alla diversa tradizione orientale. Su questa scia, porte chiuse per i fedeli divorziati risposati: in nome dell'amore alla verità, sono tenuti lontani - sia pure «dolorosamente» - dai sacramenti in quanto «il loro stato e la loro condizione di vita oggettivamente contraddicono quell'unione di amore fra Cristo e la chiesa che è significata ed attuata nell'eucarestia». Non sorprende nemmeno il rilancio della lingua latina nella messa, da molti osservatori interpretato come mano tesa ai tradizionalisti lefevriani. Benedetto XVI intende riproporre il latino e il gregoriano nelle liturgie cattoliche e ne consiglia l'uso nelle grandi celebrazioni, che avvengono in occasione dei raduni internazionali: «E' bene - si legge - che tali celebrazioni siano in lingua latina; così pure siano recitate in latino le preghiere più note della tradizione della chiesa ed eventualmente eseguiti brani in canto gregoriano».
Il medioevo, insomma, si fa sempre più vicino. E a poco servono le accorate parole del cardinale Angelo Scola che, nel presentare il documento, tiene a sottolineare che la chiesa non è «contro gli omosessuali», quando elogia «l'unicità dell'unione sessuale tra lo sposo e la sposa, che apre alla vita». Quella che emerge dal testo è, in ogni caso, una chiesa che sembra guardare indietro e non avanti. Senza fermarsi a vedere dove va il mondo, per poi poterlo illuminare con il suo messaggio. Senza considerare la complessità e il pluralismo delle culture a cui il messaggio evangelico è indirizzato. Proseguendo dritta per la sua strada. Che chissà dove la condurrà.
* Lettera22

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